“Boston solo andata”: il blog di Adele

 

Boston solo andata” è il nome del blog di Adele. Non solo una frase, ma un dato di fatto, che rispecchia la realtà di Adele e suo marito, giunti a Boston per restare:Qui è la nostra casa, qui sarà la nostra vita futura ed un eventuale famiglia. È definitivo. A volte mi piace a volte meno. É stata una scelta quasi obbligata dalle opportunità che sapevamo di non avere in Italia. Non è bello da dirsi, ma è stato più facile sradicare me dall’Italia che mio marito con tutto il suo solido bagaglio lavorativo, compresa la casa. Sono le due basi indistruttibili alle quali non potevamo rinunciare”.

 

Adele, quando e per quale motivo ti sei trasferita a Boston?

Mi sono trasferita qui stabilmente a Luglio 2013. Il motivo? Non ho lasciato l’Italia per insoddisfazione o per cercare lavoro altrove, ma semplicemente per amore. Io e mio marito ci conosciamo da 12 anni ormai. Siamo stati amici per molti anni e nel 2009 le cose tra noi sono cambiate. Abbiamo trascorso due anni a viaggiare tra l’Italia e gli Stati Uniti. Nel frattempo ci siamo sposati, ma abbiamo passato un lungo periodo separati a causa della burocrazia. Non è stata un’esperienza facile, perché la distanza e le pratiche per l’immigrazione ci hanno messi a dura prova. Poi in un mese le cose sono velocemente cambiate, ottenuto il visto mio marito è venuto a prendermi. Non ce l’avrei fatta a salutare tutti da sola.

 

É stato difficile per te l’impatto con la nuova realtà?

Sicuramente non è stato facile. Arrivata qui avevo già una minima idea di cosa mi aspettasse, di come vivessero e di quanto fossimo diversi noi italiani. Ho passato i primi mesi in preda all’euforia per la novità. Allo stesso tempo sentivo la mancanza di casa, di mia sorella, della mia famiglia e dei miei carissimi amici. Però mi dicevo che andava tutto bene e che era normale. Passato l’entusiasmo, sono stata travolta dalla realtà. É stato come svegliarsi di colpo da un sogno e chiedersi: “Ma dove sono? Che ci faccio io qui?”. Non che mettessi in discussione la nostra scelta, ma ritrovarsi a 34 anni a vivere in un posto che, in fin dei conti, non si conosce davvero, costruire nuove relazioni, parlare una lingua diversa, imparare codici e regole di un altro Paese totalmente diverso dal proprio, non è un’impresa facile.

 

 

Quali difficoltà hai riscontrato e affrontato durante il tuo cambiamento di vita?

Diciamoci la verità. Sono arrivata qui con le mie valigie e qualche altra piccola cosa e "materialmente" era già tutto pronto. Intendo dire che non ho dovuto cercare casa o lavoro come molti espatriati, perché ho avuto la fortuna di avere mio marito che già aveva una situazione stabile. Lui è nato e cresciuto qui e la casa c’era già ad aspettarmi. Le difficoltà sono state di diverso tipo. Alcune di tipo emotivo altre di tipo pratico. Per esempio, per alcuni mesi sono stata senza un documento di identità ufficiale, se non il passaporto, e senza la Green Card perché ancora non mi era arrivata a casa. Non facevo altro che prendere appuntamenti con l’ufficio immigrazione per essere aggiornata continuamente sulla mia pratica. Fino a quando ho capito che dovevo parlare con un super visor. Dopo meno di due settimane la tessera è arrivata. Quel giorno ho pianto tanto perché avevo tra le mani qualcosa che mi definiva legalmente residente qui e mi permetteva di avere diritti e doveri come tutti gli altri cittadini. Ho imparato a gestire i momenti di malinconia che mi sorprendono quando meno me lo aspetto, per esempio quando chiudo una chiamata Skype con i miei nipoti che mi salutano baciando lo schermo. Sembrano così vicini, ma in realtà sono lontanissimi. Oppure quando in giro per Boston ammiro e apprezzo ciò che vedo, ma i miei occhi mi ricordano che non ho di fronte a me i colori della bellissima Firenze o la morbidezza delle colline toscane.

 

Ci sono poi le frustrazioni quotidiane che ancora oggi mi mettono un po’ in difficoltà, come una semplice telefonata ad un servizio clienti qualunque. E’ difficile riuscire a comprendere e a farmi comprendere. Per non parlare poi della sanità americana: un vero e proprio business. Me lo ricordano gli assistenti dei medici ogni volta che in un ambulatorio mi chiedono l’assicurazione per verificare che io possa permettermi la visita. Ma su questo meglio non soffermarsi, perché potrei scriverci un libro.

Ho dovuto prendere la patente di guida americana perché la mia valeva solo un anno. Sono tornata di colpo ai miei 18 anni, quando tremavo per il test e per l’esame di guida. Questa volta tutto computerizzato e in un’altra lingua. Ho commesso solo un errore e alla guida mi sono beccata un rimprovero per non essermi ricordata di mettere il freno a mano dopo il parcheggio. Ma ero felice perché avevo un altro documento tra le mani che qui ha un gran valore. È ciò che ti identifica, dice dove vivi, lo usi per viaggiare in tutti gli Stati e ti fa sentire di appartenere un po’ di più a questo Paese. Credo che le difficoltà facciano però parte del gioco e le vedo, a questo punto, più come una risorsa che come un problema.

 

Quali cose ti hanno colpito maggiormente al tuo arrivo?

Non saprei cosa mi ha colpito inizialmente. Sento che ogni giorno c’è qualcosa che mi sorprende e mi stupisce. E sarà così per sempre, perchè sono sempre tante le cose da imparare e da fare proprie.

 

Un giorno hai deciso di aprire il blog http://bostonsoloandata.blogspot.com/ . Quando e perchè hai maturato questa decisione?

Sentivo il bisogno di rispondere alle tante domande curiose che tutti dall’Italia puntualmente mi rivolgevano. Contemporaneamente sentivo la necessità di condividere ciò che vivo qui quotidianamente. Volevo però dare il mio punto di vista su questo Paese, così come lo vivo io. Volevo esaltare le sue mille contraddizioni, cosa mi offre e mi insegna e come mi stupisce. Essere qui mi ha aperto gli occhi anche su cosa sia stata l’immigrazione nel passato per noi italiani. Sto conoscendo molte persone immigrate negli anni ‘50 e ‘60 e vorrei dedicare loro più spazio nei miei post. Ho già scritto di Anna, ma vorrei fare di più, perché meritano di essere ricordati e portati come esempio.

 

Boston solo andata.” E’ un modo di dire o pensi che la tua vita sarà legata per sempre a questa città?

La scelta del nome per il mio blog è la nostra realtà. Cioè siamo qui per restare. Qui è la nostra casa, qui sarà la nostra vita futura ed un eventuale famiglia. È definitivo. A volte mi piace a volte meno. É stata una scelta quasi obbligata dalle opportunità che sapevamo di non avere in Italia. Non è bello da dirsi, ma è stato più facile sradicare me dall’Italia che mio marito con tutto il suo solido bagaglio lavorativo, compresa la casa. Sono le due basi indistruttibili alle quali non potevamo rinunciare.

Nei nostri sogni c’è una casetta nelle campagne toscane, dove scappare per qualche mese l’anno dal freddo brutale del Massachusetts! Ma per ora è un sogno, un progetto lontanissimo da noi. Ora pensiamo a rinnovare la nostra casa qui e a mettere su famiglia. Eventuali futuri spostamenti sono solo da sognare per ora. É anche vero che non sai mai come può cambiare la tua vita. Me lo dico sempre, quando mi ricordo che mai e poi mai avrei pensato di vivere in un altro Paese.

 

 

Che tipo di riscontro stai ottenendo?

Non credo di avere un ampio pubblico di lettori per il momento, ma ho saputo che chi mi legge ogni tanto si fa una risata e apprezza una lettura che non è una guida alla vita negli States, ma semplicemente il racconto delle mie esperienze.

 

Come si vive a Boston? Cosa può offrire in più rispetto all’Italia?

Boston è una bellissima città. Ha un sapore tutto europeo per le influenze irlandesi e italiane, ha visto molti eventi della rivoluzione americana e le guerre di indipendenza. È una città a passo d’uomo e questa è una delle ragioni per le quali si fa amare. La si visita con i mezzi o a piedi. Ha dei bellissimi polmoni verdi: il Public Garden e il Boston Common, due parchi pubblici stupendi, soprattutto in questo periodo dell’anno. Intorno a Boston, a Cambridge per l’esattezza, hanno sede l’università di Harvard e il MIT. Queste grandi università e poli tecnologici portano alla città tanti cervelli in fuga da qualunque parte del mondo. Vengono coccolati, apprezzati, premiati e valutati per il valore reale che hanno è così molti rimangono e creano intorno alla città una bellissima mescolanza di culture che rendono il luogo ancora più interessante. Mi piace quando sui mezzi pubblici, in città o negli uffici, si sentono parlare diverse lingue nello stesso momento. Sono anche molti i quartieri principalmente abitati da diverse etnie. Quando ho visitato altri Stati, come il Texas per esempio, non ho notato questo colorato miscuglio di culture e mi è sembrato di essere in città più sterili e meno divertenti.

I bostoniani sono dei personaggi interessanti. Dico sempre che hanno un po’ la puzza sotto il naso. Sanno darti il benvenuto più caldo al mondo, sanno essere sofisticati ed eleganti, ma allo stesso tempo possono essere estremamente maleducati e prepotenti quando li incontri nel traffico. Vado matta per il loro accento che li differenzia dagli altri cittadini americani, si mangiano la R così come noi toscani aspiriamo la C. Quindi “Harvard” diventa "Hahvad", “car” è "cah" e così via.

 

Quali sono i pro e i contro del vivere in una città come Boston?

I pro del vivere a Boston sono le infinite differenze con l’Italia: avere a disposizione qualsiasi cosa a qualsiasi ora. Ogni idea che vuoi realizzare qui è praticamente fattibile, dalla più piccola alla più impensabile, anche grazie al facile accesso alle tecnologie.

Tra i contro, il freddo brutale, cattivo e insistente che per almeno 3-4 mesi l’anno ti fa compagnia. Credo di aver bisogno di almeno 10 anni prima di abituarmi a tutto questo.

 

Quali sono le differenze maggiori che hai riscontrato tra l’ Italia e Boston da un punto di vista lavorativo?

Dal punto di vista lavorativo ormai lo sappiamo tutti che qui il sistema meritocratico vince. Il mio esempio più grande è mio marito che appena diplomato negli anni ‘90 ha iniziato a lavorare come magazziniere e oggi ha una buona posizione lavorativa nel campo delle tecnologie. Hanno investito su di lui, sulla sua volontà di emergere, sulla sua capacità di imparare velocemente e negli anni gli hanno anche offerto un’opportunità formativa. Oggi riveste un ruolo di responsabilità che richiederebbe una formazione universitaria. Per quanto riguarda me, immigrata con una diploma che ho sfruttato per 10 anni come educatrice di nido, qui c’è un po’ meno, prima di tutto perché hanno la precedenza i cittadini e secondo perché non sono laureata.

 

Sogni nel cassetto?

Fare di questa esperienza il mio punto di forza e mettere in pratica le mie idee su come poter sfruttare la mia italianità in questo Paese.

bostonsoloandata@gmail.com

 

 

A cura di Nicole Cascione

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