La Parigi di Amedeo Modigliani e Jeanne Hèbuterne, tra genio e romanticismo

 

 

Quella che io e Parigi vi raccontiamo quest’oggi non è una semplice storia d’amore. Non è forse neppure la più straordinaria storia d’amore di ogni tempo. E’ tutto questo, ma è molto di più, perché le lettere in cui è vergata attingono in colori e inchiostri differenti: il rosso brillante della passione, il verde intenso della devozione, il giallo pensieroso dell’ammirazione incondizionata, il nero della solitudine, il carminio crudele della febbre e del sangue.

 

Vi avverto, munitevi di fazzoletti. Il viaggio che stiamo per intraprendere qualche lacrima ve la strapperà di certo. Levatevi di primo mattino e seguitemi. Linea 12, fermata Solferino. Prima tappa del percorso: il museo d’Orsay. Ma non l’ipercelebrato tempio dell’Impressionismo, non il sacrario della Bellezza rivelata, davanti al quale normalmente si allungano serpentoni di folla, ma quello che l’attuale struttura espositiva dovette essere nelle fredde aurore del 1906, all’epoca in cui il più grande artista italiano della prima metà del Novecento sbarcava a Parigi per inseguire il sogno d’essere pittore: una stazione ferroviaria rumorosa e intasata di gente. E’ qui che Modigliani giunge, sotto le gigantesche volte annebbiate dal vapore, e dev’essere solo una sterminata landa bianca l’immagine della città sepolta nella neve che dal treno i suoi occhi stentano a mettere a fuoco. Parigi è quel bianco metafisico, spettrale, quel pallore accecante, che molti prima di lui si sono già affrettati a raggiungere. Poi il bianco si scompone in un contrastato arcobaleno: prendono vita gli azzurri metallici dei tetti e dei comignoli, il rossobruno un po’ livido dei tronchi accartocciati, il verde dei prati bruciati dal crepuscolo, il glicine delle albe, come quella che ha visto lui dal finestrino.

 

 

Vagando per viali e boulevard col ventre in subbuglio dalla fame la città rivela ben presto la sua anima mondana: neppure Firenze o Roma, dove pure Amedeo ha vissuto e cercato ispirazione, possono competere con lo splendore notturno della capitale di Francia, dei suoi comodi mezzi di trasporto, dei suoi mercati vocianti e pieni di folla, dei suoi passages, dei suoi rinomati atelier, dentro cui si tessono i destini della nuova arte. Non oso immaginare quale incendio emotivo deve esplodere nel cuore di questo giovane speranzoso e consapevole del proprio talento. La notte, poi, v’è un luogo denominato Carrefour Vavin: si trova alla confluenza di due immense arterie, nel punto in cui il boulevard Montparnasse interseca il boulevard Raspail, e vi staziona, oggi come allora, il celebre Balzac scolpito da Rodin, la più brutta statua lasciataci dallo scultore francese.

 

 

E’ qui che Modigliani arriva ed è qui che stamani lo raggiungiamo, scendendo all’omonima fermata della linea 4. Le ragioni dell’incanto dell’italiano sono ancora lì, sotto i nostri occhi, come sentinelle scintillanti chiamate a sfidare i secoli: La Coupole, Le Select, Le Dome e soprattutto La Rotonde, ritrovo che diverrà il fulcro del quartiere, frequentato da Gertrude Stein, Picasso, Utrillo, Renoir, Gauguin, Kisling, Ortiz de Zárate, Foujita e Zborowski, il mercante d’arte polacco, amico e mecenate del livornese. Nei freddi pomeriggi parigini è tra i divani rossi delle sale più interne, sotto gli aloni luminosi delle pesanti lampade, che si raccoglie la crème culturale e artistica di Montparnasse. Quando nel 1913 il presidente Poincaré battezzerà il Carrefour Vavin come uno dei luoghi fondamentali del pensiero universale, La Rotonde sarà ormai all’apice della sua fama. Al suo interno Man Ray riuscirà a vincere le resistenze erotiche della bellissima Kiki, seducendola e mutandola in un meraviglioso violoncello. Qui Ernest Hemingway metterà mano al romanzo in cui racconta gli assillanti anni dell’arrivo a Parigi. In questo chiacchierato bistrot Amedeo intercetterà Anna Akhmatova, la poetessa russa con il gelo dentro gli occhi, che ritrarrà più volte in schizzi divenuti immortali.

 

 

Per giunta Modigliani frequenta le lezioni di disegno dell’Accademia Colarossi, situata esattamente in rue de la Grande-Chaumière, a solo qualche isolato di distanza. Soffermiamoci in punta di piedi davanti alla storica facciata di quella che è ancora una scuola in piena attività: l’aspetto visibilmente deturpato dell’edificio, l’aria invecchiata degli antichi mattoni dell’ingresso, l’odore della pietra crepata dall’umido, tutto parla chiaro del miracolo – o della tragedia sentimentale – che si compie tra le buie aule dell’istituto, perché è qui, nell’autunno del 1917, che l’artista incontra per la prima volta gli occhi più azzurri e più belli che gli sia successo di vedere. Occhi che tagliano il fiato, da principessa araba. Sono quelli della giovanissima Jeanne Hébuterne, figlia di Achille Casimir Hébuterne, capo contabile dei magazzini Bon Marché, e di Eudoxie Anaïs Tellier, casalinga di irreprensibili virtù domestiche, donna di saldi principi cattolici, prototipo della borghese perennemente in ascesa, incapace di perdonare qualsiasi rottura della norma. Non crediamo alle cattiverie e alle invidie che le amiche le seminano dietro come un codazzo, Jeanne non è affatto una ragazzina insipida e smagrita, vogliamo osservarla come è lui che la vede, perdendoci nel pallore del viso in netto contrasto col rosso dei capelli, duri, raccolti in cima alla testa da una molletta, quel ciuffo vagamente alternativo che le guadagnerà, presso l’amante, l’appellativo di “Noix de coco”. Lunghe trecce chiudono il viso in una cornice di beatitudine e di assenza, sottolineate dall’imperativo delle pupille, quelle iridi chiare, più del ghiaccio, più degli oceani, che sono quelle un po’ sinistre di chi crede che il desiderio rappresenti l’origine di tutte le cose, il centro risplendente dell’universo, e come tale può pure divenirne la fine.

 

 

Jeanne è un angelo timido, parla per sussurri, si muove a scatti nervosi, naturali se consideriamo i soli diciannove anni, e i quattordici che la separano dai trentatré di colui che diverrà, per breve tempo, l’uomo della sua vita, il compagno fidato, il padre della sua bambina e la sola ragione per restare al mondo.Tuttavia Jeanne è dotata di un carattere di ferro, grazie al quale si ribellerà ai genitori, all’imposizione di abbandonare Modì per tornare in seno ai valori nei quali è stata cresciuta, all’obbligo di separarsi per sempre da quel fallito dall’aria fascinosa, che non è ancora riuscito a piazzare una sola delle sue pazze tele. Cosa che non soltanto Jeanne non farà, ma che la spingerà semmai ancora più in fretta tra le braccia accoglienti del bel pittore toscano.

 

Se vi spostate di qualche passo lasciandovi l’accademia Colarossi sulla sinistra, poco prima che la via finisca troverete la casa dove i due vanno a vivere, nella breve stagione del loro tumultuoso rapporto. Nella storica via una delle più celebri sale da ballo parigine. Nello stesso palazzo l’appartamento in cui Paul Gauguin ha abitato con Annah la giavanese, misteriosa musa venuta dall’altrove.

 

Se la passione, la dedizione, il sacrificio d’amore hanno un luogo, un epicentro venerabile, esso non può che risiedere all’interno di questa stradina poco battuta e baciata dall’oro della memoria. E’ qui che Jeanne sostiene il suo ragazzo ubriaco, il leone morente annientato dall’alcol e dall’impazienza del genio, qui che assiste al miracolo della creazione, che quasi sempre se ne infischia del benessere e della buona salute, qui che la preziosa fanciulla del quinto arrondissement sarà costretta a scendere dal suo dorato piedistallo per entrare, sola e a pugni aperti, nel sangue bollente della vita. I tradimenti continui di Amedeo, la sofferta gravidanza che darà alla luce la piccola Jeanne, i morsi della fame, della miseria, la rinuncia definitiva al sogno di dipingere, la condanna protratta con spirito cinico dai genitori, la perdita dei privilegi dell’antica condizione borghese, nulla farà arretrare di un millimetro questa donna infelice e ostinata, questa vestale di un sacrificio estremo, animata da un solo obiettivo e dall’ossessione di restargli fedele fino in fondo, fino alla fine, condividendo fino allo stremo delle forze il destino sciagurato di colui che ama.

Per l’ultimo atto di questa drammatica vicenda è necessario che mi seguiate fino alla stretta rue Amyot. Siamo alle spalle del Panthéon, che raccoglie al suo interno gli eroi della nazione e che non un solo fiore, un omaggio, una targa o una lettera del suo risonante alfabeto dedica a questa creatura totalizzante, questa donna di vento, che il mattino successivo al 24 gennaio 1920 – data ufficiale della morte del compagno, per tubercolosi, infezioni e deperimento progressivo – decide di lanciarsi nel vuoto portando nella sua stessa fine il frutto del loro amore, un maschio di quasi nove mesi, che di lì a poco sarebbe venuto al mondo.

 

 

La dimora degli Hébuterne si trova all’8 bis, al piano più alto dell’edificio, e l’apparente pulizia della facciata, l’eleganza del portoncino laccato di rosso e allietato da panciute corolle scolpite nella pietra non vi traggano in inganno. Potete tirare fuori i fazzoletti che vi avevo chiesto di prendere per piangerla tutti insieme questa dolcissima figlia della sventura. Nella casa d’infanzia dove non era più tornata, nel nido che l’ha scacciata per aver scelto d’unirsi a uno come Modì – artista, italiano, squattrinato ed ebreo per giunta – Jeanne Hébuterne compie un atto politico, prima che personale. Quello d’essersi riappropriata delle ferite del passato, d’essersi colmata della sé smarrita, di aver raccolto sulla carne martoriata della propria morte il romanzo delle intimità dolenti necessarie a raggiungere il suo Dedo, sotto la dura lapide del Père-Lachaise. Quando si macchia del gesto radicale e infamante non ha ancora compiuto ventidue anni.

 

Luigi La Rosa

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