Monica: il mio carpe diem è in Arizona

 

 

Monica Savarese, dal 1993 negli Stati Uniti, dopo aver vissuto in California e in New Jersey, oggi è mamma e moglie nello “Stato selvaggio” dell’ Arizona. Monica è una persona che crede fermamente nella necessità di afferrare tutte le opportunità professionali e sentimentali che ci si presentano nella vita, anche se questo significa doversi allontanare dal proprio Paese d’origine: “Quando sento parlare di ‘carpe diem’, penso a quanti hanno come me lasciato la zona di conforto, hanno lasciato ‘casa’, penso al loro coraggio che poi è anche il mio. Le possibilità esistono, basta avere la volontà di trovarle e il coraggio di acchiapparle!”

 

La mia avventura negli Stati Uniti comincia ufficialmente nel 1993, anche se vivere qui è sempre stato il mio sogno, nato probabilmente dai ricordi di mia nonna materna (dal profetico nome America), che aveva vissuto a New York da bambina e che, tornata poi in Italia da adolescente, parlava sempre di questo Paese con affetto, pur ricordandosene solo in piccoli morselli aneddotici e con nostalgia. Mi sembra di sentirla ancora adesso dire, con il suo accento barese che non aveva mai perso nonostante decenni vissuti a Milano: ”Ma come fece mio padre a lasciare l’America?”. Diciamo pure che galeotte furono le lettere, perché nel 1985 o ’86 cominciai una corrispondenza via posta aerea (Sì! Niente e-mail allora!!) con una ragazza di Chicago, per migliorare l’inglese ed imparare slang e abitudini americane; dopo esserci incontrate nell’estate 1988 (mio primo volo e viaggio negli USA) continuammo a scriverci sempre con regolarità e nel 1991 mi invitò a partecipare al suo matrimonio che sarebbe avvenuto a Chicago nel 1993. Ovviamente ci andai e mi divertii tantissimo: immagino che bere come una spugna e ballare sul tavolo deve aver fatto impressione al cugino della mia penpal, perché qualche giorno dopo, tornata a Milano, ricevetti una telefonata dalla California… era proprio questo cugino, Jim, che mi chiamava per chiacchierare!! Dopo due mesi di telefonate e due bollette stratosferiche, decise di venire a trovarmi a Milano, per poterci “frequentare” di persona, visto che vivere a 12mila km di distanza non aiutava a sviluppare una relazione e il volo costava meno delle telefonate. Così, 3 mesi dopo esserci incontrati a Chicago, Jim arrivò in Italia. A dire il vero, io mi ero già innamorata a distanza e, pazza impulsiva che sono, avevo già comprato il biglietto Milano-Los Angeles (andata e ritorno, per scaramanzia), così dopo 3 settimane idilliache tra Milano, Venezia e il Lago di Como, ripartimmo insieme, destinazione California del Sud! Per poter iniziare in fretta le pratiche di regolarizzazione della mia situazione con il Dipartimento di Stato (immigrazione) ed evitare di dover ritornare in Italia prima della scadenza del mio visto da turista (6 mesi), ci sposammo il 6 novembre nella courthouse davanti al giudice di pace della contea di Ventura e il 4 dicembre diventammo proprietari della nostra prima casa, sempre a Ventura. Si capisce che sono una che non ha paura di buttarsi in un’avventura? Il matrimonio della mia penpal è avvenuto il 12 giugno 1993 e a dicembre dello stesso anno ero sposata e proprietaria di casa! Credo profondamente nella necessità di afferrare tutte le opportunità che ci si presentano nella vita, non solo quelle professionali, ma anche quelle sentimentali. E penso di aver vissuto tutta la mia vita proprio incarnando questa convinzione”.

 

Da quel momento in poi hai girato per gli States. Prima di arrivare in Arizona sei stata in New Jersey e in California. Cosa puoi raccontarci di quei periodi?

 

Ho vissuto in California i primi 5 anni della mia vita americana e sono stati davvero un’avventura incredibile: considerando che, come coppia, ci siamo sposati senza mai aver vissuto una vita da “fidanzati”, i primi 2 anni sono stati per me una scoperta continua, non solo del mondo americano, della sua cultura, delle abitudini, degli slang, delle inflessioni del linguaggio, delle trasmissioni televisive, etc., che è una situazione comune a tutti gli expat, ma anche della persona con cui avevo scelto di vivere e per cui avevo lasciato famiglia, amici, lavoro, insomma tutto ciò che rappresenta conforto e stabilità, per dare forma a questa nostra vita insieme. Prima dell’arrivo del nostro primo figlio, nel luglio del ’95, ogni weekend era occasione per visitare posti nuovi (per me), partivamo senza fare piani, spontaneamente… Ogni giorno era per me eccitante ed incredibile… mi ricordo con precisione una delle prime volte che eravamo sull’autostrada 101 in direzione nord, tra Ventura e Santa Barbara, a sinistra l’Oceano Pacifico, con la spiaggia che si intravedeva tra l’autostrada e lo sconfinato, scurissimo mare, con le foglie delle palme altissime che sembravano toccare il cielo, sempre o quasi, completamente azzurro… mi ricordo di aver provato una sensazione di incredulità e di soddisfazione profonda. Stava proprio succedendo a me, era vero: ero in California, ero sposata ed ero felice! L’arrivo di Chris, il nostro primo figlio, ha cambiato poco la voglia di viaggiare, ma l’ha resa decisamente più complicata da realizzare e ne ha tolto la spontaneità. La California è uno Stato che offre infinite scuse di viaggio, anche se i turisti italiani solitamente si fermano a Los Angeles o a San Diego o a San Francisco se vogliono fare i cosmopoliti, ma in realtà è uno Stato enorme che vale la pena visitare in lungo e in largo, avendone la possibilità. Gli anni in California, forse perché sono stati i primi in questo Paese che ho sempre amato e forse anche perché erano esenti da responsabilità, sono stati decisamente felici e spensierati. Nel ’98 è stato offerto a mio marito un trasferimento in New Jersey, offerta che abbiamo accettato con gioia, soprattutto perché ci avrebbe avvicinato notevolmente ai miei suoceri e ci piaceva l’idea che ci fossero dei nonni nella vita di nostro figlio. Così, nonostante la tristezza di dover lasciare un posto mitico come la California, vendemmo la casa, impacchettammo il suo contenuto e caricammo a bordo cane, gatti e bambino (e una scorta di cassette di musiche Disney sufficienti per arrivare sulla luna), per iniziare la famosa mitica traversata “coast to coast”, dalla costa ovest a quella est! Non fu facilissimo: oltre alle difficoltà create dalla presenza di un bambino di 2 anni e mezzo, costretto a stare seduto per diverse ore nel seggiolino e dalla presenza degli animali che avevano i loro bisogni (davvero!), io ero incinta di 2 mesi e mezzo e mi trovavo a convivere con nausee costanti e una stanchezza fisiologica, guidare per 6/7 ore al giorno richiedeva una forza di cui ancora oggi mi chiedo la provenienza! Ci sono più di 6.000 km tra la California e il New Jersey e nonostante le difficoltà dovute alla mia condizione, la traversata fu incredibile e indimenticabile: attraversammo climi e vegetazioni diversissimi, vedemmo le palme trasformarsi nei deserti dai colori caldi e insoliti, punteggiati da montagne che sembravano spuntare dal nulla tipici del sud-ovest, dell’Arizona e New Mexico; i deserti poi si trasformarono in distese interminabili delle praterie del Texas, dove i soli segni di vita erano le stazioni di servizio e qualche mucca sperduta; poi “risaliti” verso il Midwest, osservammo la parte centrale di questa America che avevo solo iniziato a conoscere, le distese dei prati verdi, i fiori.. Eravamo partiti dalla California all’inizio di in un aprile caldo e già odoroso di estate per arrivare, dopo 9 giorni in macchina, in un New Jersey verdeggiante e fiorito (non a caso è chiamato “the garden state”) che ancora si trascinava la frescura invernale, ma sorprendentemente più bello di quello che ci eravamo immaginati. Anche in New Jersey, abbiamo scelto di vivere a pochi chilometri dall’oceano, questa volta quello Atlantico ed è stato nella contea di Ocean (la parte del New Jersey chiamata “Jersey Shore”…) che sono nate le nostre due figlie, a due anni di distanza l’una dall’altra.

 

 

Il New Jersey mi ricordava tantissimo l’Italia, purtroppo non in modo positivo: parlo ad esempio del numero di persone che fumano (tantissime, mentre in California non conoscevo nessuno che fumava), e la presenza di mozziconi ovunque, anche nei parchi gioco, cosa di cui mi ero disabituata vivendo per 5 anni in California. Parlo dell’aggressività di chi si trova dietro al volante in New Jersey (e New York), appesantita dal fatto che è lo Stato con la più alta densità di popolazione degli Stati Uniti: il traffico è mostruoso, ma a differenza di quello altrettanto gargantuesco che si vive in California, gli automobilisti del New Jersey hanno un atteggiamento sempre bellicoso… molto simile agli italiani infatti (sarà forse l’altissima presenza di italo-americani di seconda e terza generazione che rende il New Jersey così simile all’Italia?). Parlo dell’estrema competitività sociale ed economica dei suoi abitanti, che non ho mai riscontrato in maniera così diffusa da nessun’altra parte, se non in certi “circoli” di Milano. Faccio un esempio, le feste di compleanno dei bambini. In New Jersey sono un evento che ti può portare in bancarotta: i “poveri” spendono facilmente $200+ per una festicciola banale e totalmente “dimenticabile” in posti come Chuck E. Cheese (una sorta di “pizzeria” che offre diversi giochi, la maggior parte a pagamento) o McDonald’s. I “ricchi” o comunque i “wannabes”, cioè quelli che ricchi non sono ma vorrebbero esserlo, spendono facilmente $600/$700 per creare una festa elaborata e in teoria indimenticabile. Un’amica aveva speso per il primo compleanno del figlio $2000! Il figlio compiva un anno: visto che la memoria di un bambino di 12 mesi non è esattamente molto lunga, per chi era la festa? Divago…. Nel 2007, approfittando del fatto che la posizione di mio marito sarebbe stata spostata in Maryland nel giro di 3 anni, ci siamo chiesti: “Dovendo scegliere, dove ci piacerebbe vivere?” e la mia risposta, dopo 9 anni in New Jersey, è stata “Al caldo!”. Così, dopo un paio di colloqui e un paio di offerte, abbiamo deciso per l’Arizona. E’ iniziata così una nuova avventura! Il 20 luglio 2007 abbiamo lasciato la casa in mano ad un’amica agente immobiliare, ne abbiamo impacchettato il contenuto un’altra volta, caricati i tre figli, 3 gatti e cane (suddivisi tra pulmino e station wagon) e siamo partiti, questa volta in direzione sud-ovest. Ancora una volta ho avuto la fortuna di poter gustare la bellezza e la vastità dei diversi paesaggi durante la traversata. Il primo anno in Arizona è stato difficile per me: ero in crisi profonda, il divorzio era per me un’alternativa plausibile. Ma grazie a diversi cambiamenti fatti da entrambi, siamo riusciti a salvare la nostra famiglia e a riportare un certo equilibrio alla nostra relazione. E nel 2008 sono rimasta incinta ancora una volta, a sorpresa considerata la nostra età “avanzata” e l’età degli altri tre figli, nel 2009 è nata la numero 4, confermando la teoria che ovunque viviamo, facciamo almeno un figlio! La dinamica della famiglia è cambiata ulteriormente, ma ancora una volta ci siamo adattati. Mi piace l’Arizona, in particolare mi piace quest’area: siamo a 1.500mt di altitudine e a pochi minuti di distanza ci sono delle bellissime montagne chiamate Huachuca Mountains (“huachuca” e’ la parola in lingua Apache che significa “tuono”, a causa dei violenti temporali durante i monsoni), ma in qualsiasi direzione ci rivolgiamo, vediamo montagne, alcune distanti centinaia di chilometri. Certo, non abbiamo più la spiaggia a 5 minuti, ma lo scambio è stato in nostro favore, perché il clima è per me perfetto: in estate fa caldo, ma mai quanto Tucson o Phoenix (che toccano i 40 gradi facilmente) e in inverno, da dicembre a marzo, la temperatura scende sotto zero di notte, ma di giorno arriva facilmente a 10/14 gradi. Ci sono giornate d’inverno in cui si può stare comodamente a mezze maniche… ma di notte, bisogna avere il piumone sul letto! Nevica almeno un paio di volte in inverno, ma la neve si scioglie subito, almeno qui in “pianura”: le cime delle montagne invece rimangono imbiancate solitamente fino a marzo… Mi piace l’Arizona, proprio per alcune delle ragioni per cui non mi piaceva il New Jersey: non esiste traffico, almeno “quaggiù” da noi (ho dimenticato di menzionare che il confine col Messico è a circa mezz’ora da qui) e, forse per il carattere diversificato di questa comunità che esiste e prospera grazie solo alla presenza della base militare, non ho ancora visto nessun segno dell’arrivismo e dell’invidia sociale rampanti in New Jersey, nessuna indicazione che la sindrome del “keeping up with the Joneses” (modo di dire che identifica lo sforzo fatto da chi cerca di stare al passo materialmente e socialmente, con grande fatica economica e a tutti i costi, con i vicini più abbienti, appunto “i Joneses”) sia diffusa o presente qui. Mi piace l’Arizona perché quasi tutte le persone che vivono qui sono trapiantate da qualche altro Stato e chi vive qui in maggioranza lo fa per scelta, non perché sia nato qui… Sembra un dettaglio banale, ma rende la gente che incontri diversa. Ma soprattutto, mi piace la nostra casa, grande e spaziosa, con un giardino che amo, la piscina che possiamo usare fino all’arrivo dell’inverno, il cielo sempre pulito, il deserto di altura (il Deserto di Sonora), dalla flora (saguaro, mesquite, ocotillo) e fauna (javelina, roadrunner, gila monster, coyote, etc.), strani e resilienti da riuscire a sopravvivere in questa zona arida.

 

 

Sei mamma di 4 figli, quindi avrai avuto esperienze con il sistema scolastico americano. Cosa puoi dirci? Che differenze ci sono con quello italiano? Com’è strutturato?

 

Ho 4 figli: Chris ha 17 anni ed è un “senior” in high school (l’ultimo dei 4 anni di scuola superiore: i “primini” vengono chiamati “freshman”, quelli di seconda “sophomore”, quelli di terza “junior” e quelli di quarta appunto “senior”), Emily ha 13 anni, tra poco 14 ed è in “8th grade”, cioè la terza media, Vivian ha 11 anni, tra poco 12 ed è in 6th grade, cioè la prima media (anche se nel nostro distretto, la sesta è ancora parte della scuola elementare) e Violet ha 3 anni. La scuola dell’obbligo, chiamata “K-12” inizia con il Kindergarten a 5 anni e finisce con la 12ma e la famosa Graduation, dove i diplomati sfilano col cappello e abito (a questo proposito, devo ricordarmi di ordinarli per Chris!!). La prima differenza che si nota è che ogni anno delle elementari gli studenti cambiano insegnante e a mio parere gli insegnanti sono “esperti” di ciò che insegnano (infatti la risposta di chi insegna a scuola alla domanda “Cosa fai?” è solitamente “I’m a first grade teacher, insegno la prima elementare”). Ogni insegnante, dal Kindergarten alla 12ma riceve un’aula all’inizio dell’anno ed ha la possibilità di “decorarla” e renderla più piacevole ed interessante per gli studenti, questo non solo nelle elementari, ma anche nelle medie e in high school. Dalla media in su, ogni studente riceve all’inizio dell’anno la sua “schedule”, il suo orario personale con la lista delle classi che dovrà frequentare ed è diverso per ogni studente a seconda delle classi elettive scelte e del livello della classe che deve seguire (ad esempio, Emily è in “honors class”, cioè in classi avanzata in inglese, matematica e scienze, anzi ora sta prendendo algebra, classe di livello high school e se continua così, potrebbe già in un paio d’anni frequentare delle classi al college locale). Ad ogni cambio d’ora, gli studenti hanno 5 minuti per andare nel loro armadietto (locker) se necessario, cambiare libri e quaderni, ed andare nell’aula della lezione seguente, creando la marea di ragazzi che si sposta da un’aula all’altra, che si vede nei vari film americani! Ogni high school offre materie “classiche” ad indirizzo accademico e altre più ad indirizzo pratico, ad esempio Chris i primi 2 anni di high school aveva fatto lezione di “Video Production”, produzione video, ora invece sta seguendo “Video Game Design”. Nelle scuole americane l’aspetto sociale è importante, sia nei “gradi” inferiori, dove feste come la “Fall Fun Night” che la nostra scuola elementare organizza ogni anno in ottobre o novembre sia per raccogliere fondi per sostenere le spese non coperte dal budget di stato e di distretto che per creare un clima di amicizia e connessione tra studenti e genitori, ma soprattutto nelle medie e superiori con le varie “dance”, feste per ballare e divertirsi, solitamente organizzate dai gruppi di genitori/insegnanti (PTA o PTO, Parent Teacher Association/Organization) o dai vari club studenteschi delle high school. Anche gli sport sono parte importante della scuola e a partire solitamente dalle medie, gli studenti che lo desiderano possono partecipare a diverse attività sportive agonistiche in rappresentanza della scuola. Qui da noi oltre al football e al baseball, c’è la squadra di pallavolo (femminile e maschile), la squadra di tennis, quella di atletica leggera, la squadra di tuffi e nuoto (di cui fa parte Chris), quella di calcio e persino quella di golf! Grazie alle diverse “stagioni” è possibile partecipare ad uno sport per “stagione” (ad esempio, il torneo di football avviene nella stagione autunnale, da agosto, quando la scuola comincia qui da noi, a novembre, mentre il baseball inizia in primavera). Anche se per partecipare ad uno sport è purtroppo necessario pagare una tariffa, che da noi è piuttosto elevata, $150 per sport. Io adoro il sistema scolastico americano, lo trovo moderno e senza la pesantezza accademica e la pomposità di quello italiano, anche se i miei ricordi della scuola italiana risalgono a 30 anni fa! Ogni Stato ha un suo budget per le scuole pubbliche e decide il “curriculum”, cioè le materie di base che devono essere insegnate per rimanere in linea con i “common core state standards”, gli standard appunto che gli insegnanti devono mantenere per preparare gli studenti ad affrontare con successo l’università o una carriera in tutto il Paese. La comunicazione con le famiglie degli studenti e la loro attiva partecipazione non sono solo benvenute, ma anche richieste nella scuola americana: i genitori sono parte integrante della vita della scuola, spesso sono invitati nelle classi ad aiutare in eventi ed occasioni particolari o a condividere le loro esperienze o comunque a fare da volontari in molteplici occasioni. E inevitabilmente, i genitori che partecipano riescono a “sentire il polso” della scuola e dei loro figli a scuola, riuscendo anche a stare al passo con quello che succede all’interno. Invece di essere delle entità passive, che subiscono la scuola attraverso i figli (per poi marciare pronti alla guerra contro l’insegnante che osa marchiare il figlio con un 4), noi genitori siamo incoraggiati a mantenere aperta la linea di comunicazione con chi ha in mano in un certo senso, il futuro dei nostri figli. Solitamente quando invio un e-mail ad un insegnante o se chiamo la scuola e lascio un messaggio, ricevo una risposta o una telefonata nel giro di poche ore. Oltre a ricevere una pagella (“report card”) ogni trimestre, riceviamo anche un “progress report”, una sorta di pagella di metà trimestre che ci offre un’idea di quello che sta succedendo in classe. I voti sono A (per chi ha un punteggio dal 90% al 100%), B (dal 80% al 89%), C (dal 70% al 79%), D (dal 60% al 69%) e F (che sta per FAIL, sotto il 60%). Come genitore, sono abbastanza soddisfatta del livello raggiunto dai miei figli nella loro istruzione, determinato non solo dagli insegnanti, ma anche dal loro interesse personale verso le materie insegnate: le mie ragazze sono entrambe state testate come “gifted and talented” e ricevono un’istruzione più adatta a loro livello, mentre con mio figlio sono felice quando prende una B!

 

Per quanto riguarda il permesso di soggiorno, a che punto sei?

 

Il 22 giugno sono diventata cittadina americana, ma dal 1994 fino a 4 mesi fa ero una “resident alien”, una straniera con residenza, quindi con tutti i diritti dei cittadini americani, eccetto quello di votare nelle elezioni federali e con la restrizione di permanenza fuori dagli Stati Uniti sotto i 6 mesi (o avrei perso la residenza). Essendo arrivata in America con un visto da turista ed essendomi sposata velocissimamente con un cittadino americano, ricordo la prima intervista fatta al dipartimento di stato a Los Angeles, dove mi chiesero se mi fossi sposata per ricevere la cittadinanza…Ho scritto nel mio blog l’iter che mi ha portato al giuramento come cittadina americana, dall’invio della domanda in gennaio 2012 al giuramento a giugno 2012. Ho fatto questa scelta dopo 19 anni per 2 motivi principali: voglio votare per il Presidente Obama e voglio avere la possibilità, magari in futuro, di viaggiare fuori dagli USA per più di 6 mesi. Diciamo che ci sono diversi percorsi che si possono seguire per venire a vivere qui in modo permanente, ma io conosco bene solo quello che ho vissuto, cioè attraverso il matrimonio con un cittadino americano, che mi ha “sponsorizzato”. Avere uno “sponsor”, cioè una persona o entità che si prende la responsabilità della persona che vuole emigrare, è un’altra possibilità per chi vuole emigrare qui e per molti expat italiani lo sponsor è la ditta (americana) che li assume. Per chi è interessato, esistono tanti blog che offrono informazioni più dettagliate di quelle che posso offrire io.

 

 

Ovviamente ti sarai perfettamente integrata, ma quali sono state le difficoltà iniziali?

 

L’integrazione per me è stata abbastanza facile, perché avevo mio marito che mi ha aiutato tanto e perché comunque amo questo Paese e sono felice di viverci. Se ripenso ai primi mesi, la mia difficoltà più grossa è stato il riuscire a conversare con naturalezza con le persone che incontravo per strada, nei negozi, in giro insomma. Mi ci sono voluti diversi mesi per non sentirmi un’idiota, nonostante il mio inglese fosse, a giudizio di mio marito, “exceptionally good”. Un giorno è successo, ho iniziato a parlare con tutti senza problemi, di persona, al telefono (altra grande difficoltà iniziale) e … non ho più smesso! Altre difficoltà sono state, ad esempio, capire dove trovare certi prodotti e chi offriva certi servizi. Per farti un esempio, all’epoca usavo l’hennè per i capelli, un prodotto che non si trova al supermercato, e allora non esisteva lnternet… Mi chiedevo: “Dove posso comprare l’hennè”? Dove si va a fare la ceretta? Banalità ora, ma all’epoca erano ostacoli che ho dovuto superare.

 

In famiglia avete conservato le tradizioni italiane o seguite quelle americane?

 

Le tradizioni che seguiamo sono americane, ovviamente: non celebriamo feste come Ferragosto o Ognissanti, ad esempio, perché non hanno nessun senso per il resto della famiglia e non le celebra nessuno qui! Devo dire che, essendo diventata madre in questo Paese, senza nessuna presenza italiana di supporto, né genitori né amici vicini, ho dovuto appoggiarmi a gruppi ed amici “locali” e questo ha sicuramente influenzato il mio modo di essere mamma, che è senza dubbio non italiano! L’unica concessione alla tradizione italiana, tra l’altro fatta involontariamente, è che ceniamo “all’italiana”, verso le 19:30, che per gli standard americani è tardissimo: i miei figli mi dicono che i loro amici cenano alle 17, ma io non ce la faccio proprio a mangiare quando per me è ora di fare merenda!!

 

Come si svolge una tua giornata?

 

Ottima domanda! A dire il vero le mie giornate sono poco programmate e mi è difficile descriverle con precisione. La mia giornata inizia presto, quando mi alzo con i pargoli… mi sforzo di essere in piedi alle 6 con Chris che inizia la scuola alle 7:30, gli preparo il pranzo (i miei figli non mangiano nella “cafeteria”, la mensa scolastica) se vuole, poi si alzano le ragazze e Violet, colazione, preparazione del loro pranzo, qualche faccenda di casa (che odio!), controllo e-mail e Facebook (grossa perdita di tempo, ma sono molto coinvolta nelle elezioni di novembre e Facebook concentra tutte le notizie in tempo reale..), altre faccende in casa, poi si esce, spesa, parco, incontro con amiche se posso. Poi ritornano i figli da scuola a scaglioni, controllo le scartoffie che portano a casa e inizio a preparare la cena…. Quando finalmente tutti sono a letto, collasso davanti alla tv. Diciamo che questa potrebbe essere la struttura generica di una mia giornata, ma ogni giorno ci sono imprevisti, riunioni (sono stata eletta nella “Board of Directors” della cooperativa locale, Sierra Vista Food Coop), volontariato, portare il cane fuori, visite da dottori (poche per fortuna), dentista, oculista, estetista… e ovviamente, il mio hobby è leggere, quindi cerco sempre di ritagliarmi una mezz’oretta qui e lì per rilassarmi. Ah, insegno italiano ad un paio di persone.

 

Secondo te l’Arizona è l’ambiente giusto per crescere dei figli?

 

Crescere i figli negli Stati Uniti è sicuramente più facile che crescerli in Italia, a partire dal fatto che ovunque si vada, tutti i ristoranti offrono seggioloni o simili per i bambini più piccoli, nei bagni è sempre o quasi presente un fasciatoio e nessuno ti guarda male se entri in un negozio e chiedi di usare i servizi! Certamente è confortante come genitore sapere che a qualsiasi ora del giorno e della notte esistono posti aperti 24 ore su 24 dove acquistare pannolini o medicine o persino cibo! In generale, i miei figli sono più liberi di come potrebbero esserlo in Italia e io altrettanto, come madre: per fare un esempio, quando vivevamo a Ventura, in California, portavo spesso mio figlio a giocare nella fontana a spruzzi vicino all’oceano, solo col pannolino, a piedi nudi, sporco e bagnato da testa a piedi… e così capita ancora adesso, con Violet… senza che nessuno mi guardi male (anche se la temperatura dell’acqua e dell’aria non erano estive!). Sono decisamente una mamma molto più spartana delle mamme italiane! Quindi sì, secondo me l’Arizona è un ambiente giusto per crescere dei figli.

 

Come vivono i tuoi figli l’esperienza americana? E tu come la vivi?

 

Per quanto riguarda i miei figli, questa americana è l’unica esperienza che hanno vissuto, poiché sono nati qui. Dimenticavo di aggiungere che, a parte poche parole, nessuno parla italiano. Sono già stata rimproverata numerosa volte da amici italiani, ma dico solo che non è facile parlare italiano “da soli” senza interazione con altre persone che non lo parlano. Io come ho già ripetuto più volte, adoro vivere qui, sono coinvolta nella comunità di Sierra Vista, in diversi gruppi ed organizzazioni e sono soddisfatta della vita che conduco qui. Mi ritengo fortunata, anche se mi piacerebbe poter tornare in Italia in vacanza più spesso.

 

Frequenti connazionali in Arizona?

 

Solo una persona, che ho conosciuto grazie al mio blog, Letizia, vive a Tucson, quindi a circa 150 km da qui. Avevo conosciuto un’altra donna italiana che viveva a Sierra Vista, ma è tornata permanentemente in Italia un paio d’anni fa. Con Letizia ci vediamo quando possiamo ed è un’amicizia a cui tengo tantissimo, non perché siamo entrambe italiane o almeno non solo per quello, ma soprattutto perchè mi piace parlare con lei. E’ una persona davvero eccezionale. Diciamo che non mi interessa frequentare comunità o gruppi di italiani, perché spesso la patria di provenienza è l’unico elemento in comune e per me a questo punto della mia vita in America, questo non è più abbastanza: mi trovo bene con le mie amicizie “americane” e non ricerco attivamente il supporto di altri italiani. Nel caso di Letizia invece, esiste una comunanza di valori e di interessi che è sicuramente importante quanto il nostro essere donne italiane in Arizona!

 

 

Mi hai detto di essere vegan da 6 anni. Come mai questa scelta di vita?

 

Questa è una domanda che meriterebbe un volume a sé stante, ma riassumo dicendo che all’inizio del 2006, a pochi mesi dal mio 40mo compleanno, dopo aver letto diversi articoli e fatto qualche ricerca, ho preso la decisione di cambiare modo di mangiare e modo di vivere per ragioni di carattere etico e di salute e ho annunciato alla famiglia che non avrei più né comprato né cucinato carne, pesce o latticini. Così, dall’oggi al domani, siamo diventati una famiglia vegan (inizialmente mio marito e i miei figli hanno continuato a mangiare la mozzarella sulla pizza e a mettere il parmigiano sulla pasta quando mangiavamo fuori, ora invece siamo tutti completamente vegan). I benefici per me sono stati immediati: i mal di testa che avevo settimanalmente sin da quando ero bambina, sono diventati un evento sporadico (di solito quando sono super-stanca) e le emicranie che avevano cominciato a perseguitarmi da qualche anno, sono sparite completamente. La gravidanza di Violet è stata vissuta completamente vegan e lei cresce benissimo senza aver mai assaggiato né latte vaccino, né formaggio né carne, né pesce…

 

Ci racconti qualcosa sull’Arizona?

 

Parlare dell’Arizona in generale è difficile, è come cercare di parlare dell’Italia in generale, ma ci provo. L’Arizona è uno Stato ancora “selvaggio”, soprattutto se ci si allontana da Phoenix, che negli ultimi 20 anni è cresciuta come un fungo atomico ed è ora una metropoli con una popolazione di oltre 4 milioni di persone (in pratica ¾ dell’intera popolazione dell’Arizona!!). Il costo della vita è decisamente inferiore a quello di altri Stati, come appunto la California e il New Jersey, ad esempio il costo della benzina è di circa 60c in meno a gallone (quasi 4 litri). Anche le case in media costano meno e nuove case continuano ad essere costruite, proprio per lo spazio ancora disponibile. Per dare un esempio, con 300.000$ qui a Sierra Vista è possibile acquistare una casa di 180mq, nuova, con 3 o 4 camere da letto, doppio bagno, cucina grande e giardino. I prezzi salgono se ci si sposta nelle città più grandi, come Tucson e Phoenix. Il clima è vario: il nord Arizona (Flagstaff) è freddo e nevoso in inverno e mite d’estate; la zona centrale (Phoenix) ed occidentale (Yuma) sono desertiche ed estremamente calde in estate, calde nelle altre stagioni; l’Arizona del sud è più temperata, soprattutto come spiegavo prima, dove viviamo noi, per via delle montagne e del fatto che questa pianura si trova a 1.500mt sopra il livello del mare. A costo di ripetermi, mi piace vivere negli Stati Uniti e mi piace vivere in Arizona. Gli unici aspetti negativi sono la mancanza di voli diretti con l’Italia e la mancanza di stimoli culturali che qui a Sierra Vista sono quasi inesistenti: siamo lontani da musei, gallerie, teatri, concerti..

 

A livello lavorativo ritieni ci siano maggiori possibilità rispetto a ciò che può offrire al momento l’Italia?

 

Sinceramente non è consigliabile venire a vivere in America “per cercare lavoro”, perché senza un permesso di lavoro nessuno può assumere e il permesso di lavoro viene dato solo se si ha prova di essere stati assunti… In questo campo in America sono molto rigidi, se si viene colti in flagrante, le conseguenze sono: deportazione e persino divieto di rientrare negli Stati Uniti. Tra le professioni in grado di offrire maggiori possibilità lavorative c’è sicuramente quello medico: infermieri (i “registered nurse” sono pagati molto bene, a seconda dell’anzianità e dell’esperienza), fisioterapisti, assistenti, etc. Anche i Grandi magazzini come Walmart, Target, Kmart, etc. assumono sempre, ma la paga è probabilmente poco più del minimo federale.

 

Quali sono le cose che dovrebbe fare sin da subito una famiglia che decide di trasferirsi in Arizona?

 

Se si tratta di una famiglia che ha già le carte in regola per vivere negli Stati Uniti, il trasferimento in Arizona non richiederà niente di particolare, se non forse decidere dove vivere e poi contattare un’agenzia immobiliare per essere aiutati nella ricerca di una casa: gli agenti immobiliari ricevono il loro compenso da chi vende/affitta, quindi si tratta per chi cerca casa, di un servizio gratis. Il nostro agente immobiliare ci portò in giro interi pomeriggi per vedere case su case, spiegandoci quali zone erano “perfette per famiglie” e quali invece erano meno desiderabili. Solitamente gli agenti vivono nella città da tempo e sono in grado di dare informazioni sulle scuole, negozi, attività, etc. Se invece questa famiglia non ha nessun’idea di come fare, consiglierei il sito del governo www.uscis.gov che offre tutte le informazioni e spiegazioni sulle varie possibilità di emigrare negli Stati Uniti.

 

Avresti mai pensato che il tuo futuro sarebbe stato al di fuori dell’Italia?

 

Sinceramente forse nel mio subconscio lo pensavo, speravo che sarei riuscita ad andarmene dall’Italia. E ancora adesso, ogni tanto, mi chiedo se sia stato solo destino o altre forze dell’universo…Quello che ho riscontrato in tutte le persone che sono riuscite a coronare il sogno di partire, è certamente una buona dose di fortuna, ma anche una forte percentuale di coraggio. Quando sento parlare di “carpe diem”, penso a quanti hanno come me lasciato la zona di conforto, hanno lasciato “casa”, penso al loro coraggio, che è anche il mio…

 

Le possibilità esistono, basta avere la volontà di trovarle e il coraggio di acchiapparle!

 

mo****@co*.net

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a cura di Nicole Cascione