Patrizia, archeologa a La Paz (Bolivia)

 

Molti sono i giovani affascinati dall’antichità e dalla storia che decidono di avvicinarsi al mondo dell’archeologia. Purtroppo in Italia, la professione dell’archeologo è un lavoro duro e sottopagato, che offre scarse possibilità di ricerca e approfondimento. Patrizia, spinta dalla passione per l’archeologia precolombiana, ha scelto di fare ricerca in Perù “un posto dove la vita va affrontata di giorno in giorno, perché da un momento all’altro tutto può cambiare”.

 

Sono archeologa, ho 46 anni e vivo in Bolivia a La Paz, da più di due anni. Dal 2001 conduco una ricerca per l’Università di Bologna (finanziata dal MAE) nella Regione Sud Yungas di La Paz. Fino al 2010 viaggiavo in Bolivia per un paio di mesi all’anno per realizzare lo studio, poi ho deciso di fermarmi per ampliare la ricerca (visto anche che i fondi del MAE si sono assottigliati sempre più). Ho preso questa decisione anche perché negli ultimi anni ho registrato e studiato siti monumentali che mi hanno permesso di capire l’enorme importanza della regione in epoche preispaniche (ci sono pochissimi studi precedenti) e anche perché ho iniziato a raccogliere le inquietudini e le speranze delle comunità locali nel voler sviluppare attività turistiche e di sviluppo in generale, per questa zona dai paesaggi meravigliosi, ma molto isolata.

 

In questi due anni ho iniziato una attività di divulgazione dei risultati delle mie ricerche, qui in Bolivia, per far conoscere questo patrimonio e per attrarre l’interesse di finanziatori. Ho organizzato una conferenza stampa che ha avuto grande impatto a livello nazionale, una mostra e la presentazione di un libro pubblicato dall’Ambasciata d’Italia a La Paz. Ho creato un gruppo di lavoro, tra cui l’associazione boliviana ACUDE (Asociación de Consultores para el Desarrollo) e una ong italiana, il GVC, con cui stiamo presentando un progetto integrale a varie istituzioni, e nel frattempo siamo riusciti a coinvolgere il Municipio di Irupana (nel cui territorio si trovano la maggior parte dei siti e delle strade preispaniche studiate), che ha destinato un fondo per iniziare alcune attività di sviluppo del turismo e valorizzazione dei siti. Conduco attività di ricerca e scavi nell’America Latina dal 1988, quando scavai nel sito di Cahuachi, deserto di Nazca in Perù. Poi passai diverso tempo in Nicaragua, nell’Arcipelago di Solentiname, dove studiai i siti d’arte rupestre che furono oggetto della mia tesi.

 

In Italia ho sempre lavorato in scavi d’emergenza e collaborato con l’Università di Bologna, dove ho lavorato come docente a contratto e dove, purtroppo da tre anni a questa parte, si sono chiuse tutte le possibilità di continuare con queste collaborazioni, in seguito ai tagli ben conosciuti”.

 

 Ritorno dal sito di Callejón Loma-Inkataca, dove accompagnai la giornalista Gemma Candela per un reportage del giornale boliviano La Razón

 

Perché hai scelto di vivere in America Latina?

 

L’America Latina è sempre stata una passione per me e la decisione di fermarmi a vivere qui deriva anche da questa ‘attrazione fatale’, che nacque attraverso la lettura di romanzi d’avventura e scoperte, quando ero ancora adolescente. Mi hanno sempre attirato la sua storia, la diversità culturale, i suoi paesaggi, un senso della realtà meno strutturato e razionale del nostro, dove la vita va affrontata di giorno in giorno, perché da un momento all’altro tutto può succedere e cambiare.

 

In merito alla ricerca e alla conservazione del patrimonio culturale, ci sono differenze tra l’Italia e i Paesi esteri?

 

In Italia abbiamo una lunga tradizione e diamo molta importanza al valore del patrimonio culturale, anche perché a differenza dell’America Latina, non abbiamo vissuto la rottura tragica della conquista spagnola, che significó la cancellazione materiale e spirituale dell’eredità preispanica. In Italia ci sono le migliori scuole di conservazione e anche a livello accademico ci sono eccellenze riconosciute a livello mondiale. Inoltre ci sono buoni esempi di gestione del patrimonio da parte delle amministrazioni di alcune regioni, che brillano per la loro lungimiranza. In America Latina, che è la realtà che più conosco, ci sono molte differenze tra un paese e l’altro, alcuni, come il Perù, hanno invertito la propria tendenza, valorizzando moltissimo i siti soprattutto in vista dell’attività turistica. Altri, come il Cile, hanno una buona gestione del patrimonio, sempre a fini turistici, sebbene ci siano ancora forti conflitti per ciò che riguarda i diritti degli indigeni (Mapuche in questo caso) sul territorio e le sue risorse naturali. Ciò che manca ancora è una coscienza a livello di società civile e questo è molto evidente qui in Bolivia, dove negli ultimi anni si sta assistendo alla nascita di una volontà di recupero delle tradizioni ancestrali, sebbene non sia sorretta da strumenti e politiche a livello statale che siano incisive e di ampio respiro. Le ricerche archeologiche in Bolivia sono molto poche, vi sono soprattutto progetti di università straniere e quasi nulle quelle nazionali. A livello di conservazione si è alle prime armi. Ciò che si sta valorizzando di più in questo momento sono le danze (con le relative maschere fantasmagoriche) e le musiche tradizionali, che sono una delle espressioni culturali più vive della Bolivia, come il Carnevale di Oruro. C’è da dire che con il nuovo corso politico c’è un ‘recupero’ delle radici indigene, tra cui anche i siti archeologici, e questo recupero non sempre si dà secondo i canoni occidentali della conservazione e del restauro, ma coincide con la reinterpretazione e l’uso che se ne vuole dare, anche a livello politico, e con l’aspetto estetico che si vuole trasmettere all’esterno. Tutto questo comporta rimaneggiamenti non sempre fedeli all’originale.

 

L’archeologia è un settore che affascina tanti giovani, ma a tuo parere, quali sono gli sbocchi concreti a livello professionale per tutti coloro che si avvicinano a questa professione?

 

Non sono molti, in realtà, gli sbocchi professionali. In Italia vi è un’importante attività di scavi d’emergenza, in occasione di opere civili, ma è un lavoro duro, di pura manovalanza, sottopagato e che non offre possibilità di ricerca e apprendimento reale. Anche le Università non offrono molte possibilità di carriera, salvo che a pochi ‘eletti’, e continuano ad essere in generale un sistema molto chiuso di privilegi per pochi raccomandati. Un campo che mi sembra aperto e con possibilità di sviluppo è quello dell’applicazione di tecnologie informatiche all’archeologia, come il GIS, le ricostruzioni tridimensionali, etc., così come l’ambito della gestione del patrimonio.

 

Per quanto riguarda invece la tua storia personale, cosa ti ha spinto a proseguire su questa strada?

 

Mi ha spinto la passione per l’archeologia precolombiana, che offre ancora grandi possibilità per lo sviluppo della ricerca, unita al grande appoggio ricevuto dalla Prof.ssa Laura Laurencich-Minelli dell’Università di Bologna, che ha creduto in me e che mi ha invitata a far parte delle sue ricerche. Ci sono stati momenti di scoraggiamento, naturalmente, perché l’archeologia preispanica è poco studiata in Italia e le occasioni di lavoro o ricerca sono pochissime. Mi spinge anche la volontà di legare l’archeologia allo sviluppo culturale e sociale del territorio, cioè farne uno strumento di riscatto per popolazioni marginali e isolate, che posseggono un’enorme ricchezza patrimoniale nei loro territori. E questo è possibile in America Latina, dove è stata sviluppata e attuata quella che si conosce come Archeologia Sociale.

 

Cosa dovremmo imparare dall’estero e cosa invece può trasmettere la cultura italiana?

 

A livello accademico l’Italia dovrebbe fare una grande rivoluzione nella democratizzazione e nell’apertura dell’accesso alle carriere universitarie e dell’abbandono del ‘baronaggio’. Molto spesso la cultura italiana è ancora troppo d’élite e chiusa in schemi mentali che creano compartimenti che non comunicano tra di loro. Diciamo che ci farebbe bene un po’ di meticciaggio. D’altro canto abbiamo un’impostazione umanistica che ci offre la possibilità di inquadrare i problemi in un contesto più ampio e di grande respiro, non troppo tecnicistico. Anche le metodologie d’indagine in molti campi sono all’avanguardia e sono una ricchezza che dovremmo valorizzare e trasmettere di più. Nel senso più umano penso che l’atteggiamento dell’ospitalità e dell’apertura italiana sono una grande risorsa, che bisognerebbe incentivare prima di tutto in Italia e poi come valore aggiunto della nostra cultura all’estero.

 

 Nel sito di Callejón Loma-Inkataca

 

Com’è organizzata una tua giornata?

 

L’organizzazione della mia giornata dipende dalle attività del momento. Quando sono in città alterno periodi di grande attività, per esempio quando ho organizzato la mostra o la conferenza stampa, a periodi di stasi, in cui studio o cerco nuovi contatti di lavoro. Il lavoro in campo è tutta un’altra cosa: gli ultimi mesi dello scorso anno ho lavorato a Tiwanaku, uno dei siti andini più importanti e Patrimonio dell’Umanità, come direttrice di un progetto di conservazione del Tempio di Putuni (finanziato dal unicipio di Tiwanaku). Mi alzavo alle 5.30 del mattino, prendevo 4 pulmini per arrivare alle 8 al lavoro, attraversando l’immensa estensione dell’altipiano coronato a est dalla Cordigliera delle Ande. Appena arrivata organizzavo la giornata coi miei colleghi boliviani e con i 60 operai e operaie che lavoravano al tempio: c’era da organizzare i lavori in diverse aree del tempio, provvedere affinché non mancassero materiale e strumenti per i lavori, stare sempre all’erta alla convocazione di riunioni anche dell’ultimo minuto e risolvere i problemi che invariabilmente sorgevano, pazientare con la burocrazia prolissa che richiede lettere e dichiarazioni per qualunque evenienza, partecipare alle numerose celebrazioni o atti pubblici che sono una costante della vita civica boliviana. Alle 10.00 c’era una pausa, in cui i lavoratori mangiavano e bevevano qualcosa e praticavano l’akulli, ossia il masticato delle foglie di coca, che è un atto imprescindibile prima dell’intraprendere qualunque lavoro in campagna e che aiuta a sopportare il clima estremo di queste altitudini (siamo a 3.800 mslm) e la fatica del lavoro. Poi si lavorava fino alle 12.00, con la pausa di un’ora per il pranzo e si proseguiva fino alle 16.30, con un’altra piccola pausa per l’akulli intorno alle 15.00. Quindi ritornavo a La Paz, con altre due ore di viaggio e ne approfittavo per leggere e godermi il tramonto sulle cime dei ghiacciai delle Ande. A volte avevo ancora qualche riunione in città e poi non restava altro da fare che crollare sul letto!

 

Ora sto lavorando per brevi periodi nella regione Sud Yungas, dove i ritmi e i lavori sono del tutto differenti. Per esempio, l’ultimo viaggio fatto a Irupana è stato per organizzare la visita a due siti archeologici che ancora non conoscevo e che il Municipio vuole dichiarare Patrimonio Municipale. Dopo un viaggio di 7 ore circa in autobus, per strade sterrate e sull’orlo dell’abisso, sono arrivata a Irupana, una bella cittadina tranquilla a 2.000 mslm, con un clima decisamente più caldo rispetto all’altipiano. Lì ho preso i contatti con funzionari del municipio, perché mi appoggiassero con il trasporto alla zona archeologica e con un collaboratore-guida e siamo andati alla comunità di Cieneguillas per contattare personale in loco e avvisare che il giorno seguente si iniziavano i lavori nei siti. Quindi la mattina alle 6.00 siamo partiti da Irupana, dopo un’ora e mezza eravamo nella comunità, che si affaccia sulla vallata del rio La Paz e dopo qualche chiacchiera, ci siamo incamminati verso l’area archeologica, con i nostri accompagnatori che aprivano strada nella spessa vegetazione a forza di machete. Lì abbiamo passato tutta la mattina registrando le numerosissime terrazze agricole incaiche. All’una il caldo era già fortissimo e Don Marcelino, il signore della comunità che ci accompagnava nei lavori con il figlio, ci ha offerto riparo e pranzo nella sua casa. Alle 14.30, quando qualche nuvola ci è venuta in soccorso riparandoci dal sole cocente, siamo andati a registrare un’altra area di terrazze agricole immense, dotate di canali d’irrigazione, lunghe fino a 70 m. e con muri di contenzione di 2.5 m. Quando arrivi in posti così, dove il lavoro di molti secoli fa si conserva ancora intatto in tutta la sua bellezza, perizia e maestosità, ti dimentichi di tutti i disagi che devi affrontare (i mosquitos, il caldo umido, il cibo scarso, la polvere…) e ti si apre il cuore e la mente alla ricerca affascinante di spiegazioni e interpretazioni. Poi si ritornava, si approfittava per mangiare un mango, una papaya o fichi d’india offerti dalla gente del luogo e si riprendeva il viaggio a Irupana, tra campi di caffè, piantagioni di manghi e di coca, per ritornare il giorno seguente a studiare il sito di Inkalacaya ancora più esteso, più complesso e più immerso nella vegetazione.

 

Durante lo svolgimento del tuo lavoro quali sono state le scoperte che più ti hanno stupito?

 

Per un’archeologa tutti i ritrovamenti e i più piccoli dettagli sono importanti. Ma certamente avere la fortuna di studiare un territorio quasi inesplorato e poco conosciuto a livello archeologico (e non solo) offre la possibilità di stupirsi ad ogni passo. Come quando mi sono imbattuta nel grande sito di Markapata, della comunità di Santiago de Taca, che è una pukara, cioè una fortezza e luogo di controllo costruita sulla cima di un monte, con tre grandi muraglie consecutive. Lo stupore e felicità immensa di arrivare alla cittadella di Callejón Loma-Inkataca (comunità di Taca), di cui avevo sentito parlare con brevi e scarsi accenni come di un luogo di preziose sepolture che erano state ssaccheggiate da tempo. Poi quando arrivai, mi ritrovai nel mezzo di una vera e propria cittadella, con un ingresso monumentale e difensivo, un centinaio di costruzioni, abitative e cerimoniali, costruite intorno a piazze, stradine, scalinate…tutto questo ubicato sulla cresta di un monte circondato da due fiumi e da montagne più alte. La prima cosa che pensai: “Una piccola Machu Picchu”, e sebbene l’architettura non sia così complessa e monumentale come nel centro peruviano, il fascino che ha prodotto su di me e sui miei colleghi, di luogo sperduto e incastonato nelle Ande, non deve essere stato minore di quello che provò Hiram Bingham all’arrivare a Machu Picchu!!

 

Guadando il rio La Paz per raggiungere il sito archeologico di Angostura (Quilambaya) 

 

 

Ora parliamo un po’ del posto in cui vivi….Come si vive a La Paz?

 

La Paz (capitale della Bolivia) è una città molto vivace, sotto tutti i punti di vista, soprattutto per la mescolanza etnica, giacché è sempre in atto una migrazione interna dal campo alla città di gente aymara e quechua, con una grande componente di meticci, che sono il risultato della fusione dell’elemento europeo con quello originario. Il tradizionale e il moderno si affiancano in modo davvero originale, anche perché le tecnologie e le culture del nord sono un elemento di grande attrazione. I contrasti sono fortissimi, sia a livello paesaggistico (siamo sui 3.600 mslm. circondati da montagne altissime), architettonico, climatico e a livello sociale. La povertà e la ricchezza si affiancano in modo scioccante a volte e certamente ci sono grandi situazioni di disagio con molto lavoro minorile e sfruttamento in genere. La maggioranza della gente vive di lavori saltuari e informali e vi sono zone con un alto grado di povertà che generano una microcriminalità diffusa e spesso feroce. Le culture tradizionali, con le feste, le danze, le musiche, sono vivissime e in continua trasformazione e si affiancano e si fondono alla cultura hip hop dei quartieri più popolari o al metal ancora molto seguito dai giovani. E’ anche una città caotica, con un traffico in aumento e un’anarchia generalizzata nel rispetto delle regole, teatro molto spesso di manifestazioni e cortei di protesta che paralizzano il centro cittadino (ma questo succede anche a Roma). L’attività che più salta alla vista è il commercio informale, vi sono posti di vendita ad ogni passo e la quantità di mercati di strada è impressionante, a volte si ha la sensazione di vivere in un unico grande mercato. C’è una gran vita notturna, con locali per tutte le tasche e le esigenze e vi è una ‘cultura della festa’ che è un tratto caratteristico di tutta la Bolivia. Rispetto all’Italia è certamente molto economica, fino a 10 volte meno, ma non mancano certo i locali di lusso o le merci importate che possono risultare più care. La qualità della vita dipende naturalmente dai soldi che si hanno in tasca, perché vi sono persone che vivono con 800/1.000 boliviani al mese (che corrispondono a circa 90 euro) o anche meno ed altre che vivono in ville bellissime, con servitù, autista, etc.

 

Non è certo facile adattarsi a vivere qui per un occidentale, bisogna avere un grande spirito di adattamento e una gran pazienza, perché i servizi pubblici e le infrastrutture sono mancanti, anche se in lento miglioramento. Un’altra nota dolente è la burocrazia, che se in tutto il mondo è un dolore di capo, qui raggiunge livelli di esasperazione, che si possono aggirare solo se si allunga una ‘mancia’ all’impiegato di turno!! Una volta entrati nel ritmo, armati di grande pazienza, le cose poi funzionano e magari arrivano quando meno te l’aspetti, quasi per miracolo. C’è un’arte dell’arrangiarsi generale, dovuto al livello di povertà del Paese ed è ammirevole certe volte vedere come si possono risolvere i mille problemi che possono sorgere ad ogni angolo di strada. Per esempio, la maggior parte delle strade sono in terra battuta e quelle che io percorro spesso per andare nelle Yungas sono un vero cammino sull’orlo dell’abisso che nell’epoca delle piogge si sfaldano e si interrompono per frane colossali.

 

Di positivo c’è che è un Paese molto giovane e dinamico e questa precarietà della vita fa sì che ci sia una grande tolleranza e pochi preconcetti sullo stile di vita delle persone. Tu puoi andare in giro vestito da pagliaccio o da coccodrillo e la gente non ti prende per pazzo, ma gode della originalità della situazione. C’è una grande capacità di divertirsi, nonostante tutte le difficoltà e di approfittare dei momenti di abbondanza e piacere che accadono e che magari durano solo un giorno. Mi piace molto il fatto che gran parte della vita si vive per strada, c’è sempre un’eccitazione vivace nelle strade della città e non c’è indifferenza, tutti sono sempre in allerta e attenti a quello che avviene intorno, certo anche per la microcriminalità.

 

Per una vegetariana come me il cibo è un gran problema, a casa non mancano mai gli spaghetti e il pomodoro, naturalmente, ma quando mi viene voglia di una pizzetta o un croissant, un panino con stracchino e rucola, beh, la mancanza di un bar è quasi insopportabile!! Comunque in città si trovano ristoranti vegetariani o con cucina internazionale ed anche le pizzerie sono spuntate dappertutto, anche se con una ‘reinterpretazione’ locale della nostra pizza. Nelle zone di campagna dove lavoro invece, mi tocca spesso fare una dieta a base di uova accompagnate da patate bollite o fritte e riso in bianco (che sono i corrispondenti del pane).

 

 Laboratorio di formazione su turismo comunitario nella comunità di Curihuati

 

Cosa apprezzi maggiormente del Paese in cui ti trovi?

 

Apprezzo tutte quelle persone che nonostante tutti i limiti del vivere in un Paese povero, si impegnano a portare avanti progetti di vita con grande impegno. Mi piace, ora che ho acquisito certi codici delle relazioni, la facilità con cui si entra in contatto con le persone: la gente è sempre pronta a un sorriso e a scambiare due parole. Mi piacciono le amicizie che ho stretto con persone di qualunque età e condizione sociale e che in poco tempo si sono rivelate punti d’appoggio e di riferimento incrollabili. Naturalmente anche i paesaggi immensi e la loro varietà sono un elemento di continua suggestione e meraviglia.

 

E cosa invece non sopporti?

 

Non sopporto le molte invidie e le falsità, soprattutto in ambito lavorativo, che credo siano in gran parte un’eredità del passato coloniale, che ha generato quel senso d’inferiorità che è una delle piaghe mondiali legate alla condizione di povertà. A volte è difficile accettare i ritmi lenti lentissimi con cui si danno le cose e lì mi spunta fuori tutta l’impazienza ‘occidentale’ data dai nostri ritmi di vita. E’ sconcertante a volte vedere l’incuria con cui si fanno le cose, in ogni ambito, certo in maniera più accentuata che in Italia.

 

Quali sono gli angoli della città in cui vivi che ami particolarmente?

 

Io vivo nel quartiere di Sopocachi, che è piuttosto centrale e relativamente tranquillo rispetto ad altri. E’ un angolo di città molto bello, con centri culturali ed è considerato il quartiere bohemienne di La Paz. Vicino casa c’è il Monticulo, un piccolo parco con eucalipti secolari; da qui si gode di una vista meravigliosa della città e di alcuni nevai delle Ande che sovrastano La Paz. Mi piace anche molto la zona della chiesa di San Francisco, che è il cuore pulsante della città, dove la vita si svolge 24 ore su 24 e dove avvengono sempre gli eventi più importanti. Sono molto suggestive alcune strade del vecchio centro coloniale, come la Calle Jaèn, unico angolo antico di La Paz ristrutturato e pedonale. Frequento molto anche la zona dell’Università UMSA, luogo centrale d‘incontro. Qualche volta mi avventuro a El Alto, che è la ‘continuazione’ di La Paz nella zona dell’altipiano, mentre La Paz si sviluppa tutta in un immenso ‘buco’ scavato nei secoli dai fiumi. El Alto è la città indigena per eccellenza, città frenetica e dalle mille occupazioni di strada, dove però è anche molto alto il grado di violenza e sfruttamento lavorativo. A volte vado al mercato domenicale che occupa chilometri e chilometri di strade e dove, dicono, è possibile trovare di tutto, dall’antiquariato all’ultimo modello d’arma da fuoco!!

 

Al tuo arrivo è stato facile intrecciare rapporti con la popolazione locale?

 

La gente di La Paz, come i nostri montanari, è gente chiusa all’inizio e non è stato facile fare amicizia o trovare collaboratori validi. Ma un po’ alla volta ho stabilito rapporti molto solidi e a questo punto la solidarietà e l’amicizia sono incondizionali. Culturalmente ci sono grandi differenze con la popolazione indigena, e capire i suoi codici e mentalità è un impegno che non ha mai fine. Ho dovuto acuire i sensi di percezione per capire le situazioni in cui mi trovo, soprattutto quando sono nelle comunità aymara, dove all’inizio c’è sempre una certa soggezione per ‘la straniera’, e fare forza sulla capacità d’ascolto ed estrema apertura per capire le intenzioni e le aspettative di chi mi sta di fronte. In generale però trovo persone molto disponibili e generose, che hanno tempo e curiosità da spendere con me. Da quando mi sono fermata a vivere stabilmente ho rafforzato certi rapporti, ma resta sempre il fatto che le case dei pacegni non sono aperte come quelle italiane, e la vita sociale si svolge soprattutto in ambito lavorativo o per strada, quindi bisogna imparare a convivere con la solitudine, molto spesso. Un altro aspetto che genera difficoltà è la cultura maschilista e in ambito lavorativo, molto spesso, la mia parola non ha lo stesso peso di quella di un uomo, anche se il mio incarico è di piùù responsabilità che il suo.

 

Con un piccolo lama 

 

E ora, a distanza di due anni, come sono i rapporti interpersonali?

 

In generale sono buoni, anche se è diffuso un certo grado d‘invidia e di malelingue. Bisogna sempre stare molto attenti a ciò che si dice in pubblico, senza rivelare le proprie intenzioni. Questo per me è stato difficile da accettare e attuare, ma fa parte della sopravvivenza, soprattutto se si decide di esporsi pubblicamente.

 

Una curiosità, parlaci delle donne di La Paz…

 

Le donne sono ad ogni angolo di strada, col cibo preparato all’alba e trasportato in enormi bacinelle, pentole e secchi. Si formano così mille punti di ristoro, sempre affollatissimi, che offrono patate di cento varietà, riso in bianco, un po’ d’insalata e l’immancabile pezzo di carne. Le donne sono le regine dei mille mercati di La Paz. Quasi tutte le donne indigene, chiamate cholitas, hanno un bimbo/a caricato sulla schiena, nell’aguayo (il telo di lana intessuta di vivaci colori), e spesso altri per mano o attaccati alla gonna. Nella cultura tradizionale gli ambiti e gli spazi di uomini e donne sono ben divisi, per esempio, nelle riunioni o nelle celebrazioni e manifestazioni, uomini e donne vanno separati. Vige la legge del ‘chachawarmi’ (uomo/donna), che implica l’idea della complementarietà. Anche le autorità indigene sono divise tra rappresentanti maschili e femminili, ma questo non implica ancora parità di diritti e peso sociale. La parola di un uomo vale di più, e l’autorità maschile è maggiore rispetto a quella femminile. Le donne sono comunque molto combattive e, come in tutto il mondo, sono sempre in prima fila per reclamare, esigere, protestare. Il matrimonio è ancora un’istituzione importantissima e una donna della mia età, per esempio, non sposata e senza figli, è un’anomalia. Nella cultura tradizionale una persona raggiunge il vero status di adulto e può assumere incarichi di autorità della comunità solo se sposata. Per quanto mi riguarda il fatto di essere straniera comprende anche queste stranezze, anche se la signora che mi affitta la casa sta facendo di tutto per portarmi ad avvenimenti sociali e feste dove possa incontrare ‘un marito’!!!!

 

Per concludere, quali sono i tuoi progetti futuri?

 

Realizzare un progetto integrale di sviluppo nella zona dove lavoro da anni, che abbia al centro il recupero del patrimonio archeologico, ma che possa soprattutto migliorare le condizioni di vita della popolazione locale, che vive in un forte isolamento e con poche alternative di lavoro. Per quanto mi riguarda vorrei approfondire le ricerche dei grandi siti archeologici registrati e poter realizzare la conservazione e la valorizzazione di alcuni di essi, perché si possano aprire al turismo su base comunitaria. Tutte le mie energie sono indirizzate verso questi obiettivi.

 

La mail di contatto è pa***************@un***.it

 

A cura di Nicole Cascione