Costanza: insegnare italiano in Burkina Faso

 

 

Vivere tre mesi in un Paese del terzo mondo è sicuramente un’esperienza che segna indelebilmente la propria vita. E’ ciò che è successo a Costanza Pacini quando ha deciso di staccare la spina e di avventurarsi in una esperienza che, senza sapere, le avrebbe cambiato la vita. Tre mesi in Burkina Faso come insegnante di italiano per una Onlus, tre mesi in una terra che oltre a cambiarla profondamente, le ha regalato l’incontro con Pier, un fotografo divenuto poi il suo compagno di vita. Tra i tanti sogni di Costanza ora, c’è anche quello di creare una scuola dove poter insegnare la lingua italiana agli abitanti del luogo.

 

Sono laureata in Lettere Antiche e ho un dottorato in filologia greca, mi sarebbe piaciuto fare ricerca, ma forse non piacevo io alla ricerca, quindi a un anno dalla discussione della tesi di dottorato, ho deciso di lasciare perdere e di dedicarmi ad altro. La prima cosa che mi è venuta in mente, per sfruttare almeno in parte anni ed anni di studio, è stato di insegnare italiano a stranieri, quindi ho preso la DITALS (una certificazione per l’insegnamento dell’ italiano agli stranieri). Mentre studiavo e facevo il tirocinio, preparavo un’altra avventura: il Burkina! Avevo bisogno di staccare la spina e nel paese dove vivevo c’era, anzi c’è tutt’ora, una onlus che lavora in molti Paesi del terzo mondo. Un pomeriggio mi sono presentata, chiedendo se potevo essere utile a qualcosa in qualunque parte del mondo. Mi hanno chiesto cosa sapessi fare e ho risposto che non sapevo fare niente, ma stavo studiando per insegnare l’italiano agli stranieri. Caso volle che in quel periodo stavano cercando qualcuno per insegnare italiano in una università che avevano appena fondato a Ouagadougou, la capitale del Burkina Faso. Detto e fatto: il 13 dicembre ho fatto l’esame per la DITALS, poi vaccinazioni, bagagli e il 17 gennaio del 2011 sono partita. Tre mesi in Burkina, per me che non ero mai stata in Africa e non avevo neanche idea di cosa dovessi fare. Oltre ad aver fatto un’esperienza che mi ha cambiato la vita, lì ho conosciuto Pier, un fotografo partito con me per un soggiorno di 10 giorni. Dopo il suo ritorno in Italia, abbiamo continuato a scriverci tutti i giorni (e ti risparmio i dettagli delle odissee dovute alla qualità delle connessioni africane…) e semplicemente ci siamo innamorati. Da quel momento in poi non ci siamo più lasciati. Da allora sono tornata in Burkina anche quest’anno, di nuovo insieme a Pier e conto di tornarci anche l’anno prossimo e quello dopo ancora e ancora e ancora. Il progetto è di creare una scuola di italiano, l’entusiasmo è tanto, le difficoltà altrettante, vedremo che succederà”.

 

In cosa ti ha cambiata e in cosa ti ha arricchita questa esperienza vissuta in Burkina?

 

E’ facile immaginare che vivere tre mesi in un Paese del terzo mondo sia un’esperienza che ti segna indelebilmente la vita. Nel mio caso ancora di più, perché era la prima volta che andavo in Africa e, in generale, che partivo per un’esperienza del genere, di cui sapevo veramente poco. Anzi, quando sono partita non sapevo quasi niente, le informazioni che avevo avuto erano vaghe, sapevo solo che avevo il bagno in camera e che avrei dovuto fare dei corsi di italiano. Fortunatamente l’inizio è stato più soft del previsto, dal momento che sono partita insieme ad un gruppo “turistico”, che avrebbe passato dieci giorni in Burkina per visitare orfanotrofi, ospedali, pozzi ecc.. In questi dieci giorni ho avuto modo di guardarmi un po’ intorno e … sono rimasta senza parole. Un pomeriggio ci hanno portato a vedere una cava. Praticamente quello a cui pensava Dante quando ha descritto il suo di inferno. Un buco nel terreno di qualche km di diametro, da cui emergeva un rumore incessante di martelli, puzza di plastica bruciata (bruciano gli pneumatici per schiantare la roccia) e bambini e donne che tenevano sulla testa pietroni pesantissimi. I pietroni poi venivano ridotti in sassi o ghiaia o sabbia da altrettante donne e bambini, con l’aiuto a volte di un altro sasso. Al ritorno sono rimasta tre ore ammutolita. Non ci sono parole per descrivere veramente quello che vedi e soprattutto per spiegare l’ingiustizia insopportabile di camminare in luoghi come questi per poi risalire sul pulmino e tornarsene in albergo. Poi tuo malgrado ti abitui e a questo punto però riesci a vedere anche quello che c’è dietro, cioè un popolo che sa sorridere e godere di ogni momento della vita. Noi aspettiamo sempre qualcosa o qualcuno e questa costante attesa ci fa perdere il gusto del momento, loro invece sono capaci di vivere ogni momento per quello che è. Dopo qualche settimana fortunatamente questa capacità di vivere il presente ti contagia. Purtroppo, rientrati a casa basta poco per tornare ad aspettare qualcosa e perdersi il presente. Sicuramente però una cosa resta: ogni volta che ho un problema penso ai miei amici laggiù, magari in questo momento la corrente elettrica è saltata e fa caldo, il telefono non prende e ognuno di loro ha sulle spalle una decina di parenti da mantenere con il proprio lavoro, sperando che nessuno si senta male. Ed ogni mio problema, a confronto, diventa banale e risolvibile.

Hai mai avuto paura?

 

I burkinabé sono un popolo molto pacifico, malgrado il contesto geopolitico “movimentato” in cui si trovano. Nonostante questo, l’anno scorso in febbraio, ci sono state delle rivolte. Ora, a dirla così sembra una cosa terribile, ma in realtà le rivolte le ho viste soltanto in televisione. L’unico giorno che hanno sparato nel quartiere dove stavo io, ero andata via per il week-end e ho avuto notizia dei disordini solo da amici. E poi hanno sparato nuovamente il giorno in cui sono partita, me lo hanno scritto i miei amici mentre ero già sull’aereo e, anche se sapevo che erano tutti al sicuro, sono scoppiata a piangere e ho pianto fino a Parigi. Era un pianto di tristezza, perché lasciavo una parte importante anche se breve della mia vita, perché in fondo ero anche un po’ contenta di tornare a casa, perché tornavo alla mia vita agiata e lasciavo loro in mezzo a tutti quei problemi.

 

C’è qualcuno che hai conosciuto che ti è rimasto nel cuore?

 

Tutte le facce dei miei amici sono scolpite nel mio cuore e quando quest’anno sono tornata, è stato bellissimo rincontrarli tutti. E poi in Burkina ho fatto un incontro … da film. Io e il mio compagno Pier infatti ci siamo incontrati durante il mio primo viaggio. Ed è buffo perché in Italia abitiamo a meno di 20 km di distanza. Siamo partiti insieme, lui andava a fare delle foto e, durante i primi dieci giorni, abbiamo viaggiato insieme in lungo e in largo senza mai degnarci di uno sguardo. A me in realtà non stava neanche simpaticissimo, mi sembrava un po’ altezzoso. Gli ultimi giorni, complice una luna piena come quelle che si vedono solo vicino all’Equatore, abbiamo iniziato a guardarci. Gli tenevo il posto vicino per pranzo, lui mi aspettava per fumare una sigaretta. Quando è partito ho pensato che non ci saremmo mai più sentiti e invece mi ha scritto un messaggio. Io gli ho risposto e lui mi ha riscritto. E siamo andati avanti così per tre mesi, a raccontarci le vite per iscritto. Quando sono tornata è venuto a prendermi in aeroporto con mia sorella e, nel giro di tre giorni, vivevamo insieme. In fondo ci eravamo corteggiati per 3 mesi! Quando ci penso sembra un po’ una storia d’altri tempi, con questo corteggiamento epistolare a coprire i 6.000 km di distanza che ci dividevano. Solo che invece di carta e penna, avevamo cellulare e computer.

 

L’epilogo di una bella favola! Oltre a questo sicuramente avrai vissuto situazioni difficili in Burkina…

 

Quando vai in un Paese come il Burkina, ti rendi conto di quanto la tecnologia sia ormai entrata nel DNA. Lì per trovare le scuole di agraria ho dovuto sfogliare l’elenco telefonico, mettendoci due mattinate. E poi c’è un problema più difficile da affrontare: le differenze culturali. Durante quel periodo di permanenza mi sono resa conto di essere troppo diretta. Ti faccio un esempio: solitamente se cerco una persona per chiedergli qualcosa, una volta trovata (per telefono o personalmente) la saluto e poi gli chiedo quello di cui ho bisogno. Loro invece devono trascorrere almeno 10 minuti in chiacchiere, scherzi, battute, ecc. E il mio essere diretta li lasciava un po’ perplessi. Ovviamente quando capisci che un tuo comportamento è inappropriato lo cambi, ma a volte non è facile capirlo, perché sono troppo delicati e gentili per dirti che li hai offesi. Un altro esempio: ho scoperto solo il secondo anno che per loro è cattiva educazione invitare qualcuno a cena, è buona abitudine invece autoinvitarsi, poiché l’autoinvito dimostra che tra tutti i tuoi amici, tu hai scelto di andare a trovare proprio quella persona. Esattamente il contrario di quello che avviene da noi, con il risultato che, durante il primo anno, io mi sono sentita poco accettata e loro hanno pensato che me la tirassi.

 

Per il resto come si svolgevano le tue giornate?

 

Il primo e il secondo soggiorno sono stati abbastanza diversi. Il primo anno devo dire che mi sono annoiata tantissimo. Le ore di lezione che avevo erano poche rispetto al mio soggiorno, quindi in realtà passavo giornate infinite a leggere o a chiacchierare o a chattare con quello che ai tempi era “il fotografo” in Italia. Fare i turisti a Ouaga non è il massimo, perché in realtà non c’è molto da fare, ogni tanto qualcuno che andava a fare compere mi portava con sé, giusto per farmi fare qualcosa. E non ti dico che effetto scatenava l’arrivo di una bianca al mercato… La sera era il momento più drammatico, soprattutto quando mancava la corrente, perché non potevo fare niente. Per fortuna veniva sempre qualcuno a chiacchierare o a portarmi a bere una birra in città. Il secondo anno invece sono stata meno tempo, avevo il doppio delle lezioni e in più seguivamo un altro progetto sullo sfruttamento delle acque, quindi, quando non ero a lezione, ero in ufficio con il direttore dell’università a preparare relazioni e fare ricerche, ho anche tirato su un blog per il progetto. Gli ultimi 15 giorni mi ha raggiunto Pier per un nuovo progetto fotografico. Sono stati giorni frenetici, avevo 8 ore di lezione al giorno e, quando non facevo lezione, accompagnavo Pier in giro, perché lui non parlava francese. E’ stato bello rivivere il Burkina insieme un anno dopo. E in fondo abbiamo pensato tutti e due che non sarebbe stata una cattiva idea restarci. 

Qual è il momento più brutto che hai vissuto in Burkina?

 

Le ultime settimane del primo anno sono state abbastanza difficili. Mancava la corrente elettrica a causa della guerra in Costa d’Avorio, questo significava niente aria condizionata né ventilatore (con temperature superiori ai 45 gradi anche di notte e non fatevi ingannare, il fatto che sia secco non significa che non si sente!!), niente acqua fresca, niente carica batterie per telefono o cellulare, a volte niente acqua, niente luce la sera. E questo per due settimane, le ore di corrente si contavano sulle dita di una mano. Alla lunga stanca. Il primo anno poi mi sono sentita male. Un’infezione intestinale che per fortuna è passata con gli antibiotici, ma il primo giorno sono stata davvero male. La colpa però è stata mia: ho bevuto da una bottiglia d’acqua trovata in camera, probabilmente contenente acqua del rubinetto. Lì per lì non mi sono sentita male. Due mattine dopo però mi sono svegliata con un po’ di febbre. Ho chiamato il mio medico in Italia, il quale mi ha consigliato di prendere gli antibiotici. Messo giù il telefono è arrivato un mio amico, era il suo giorno libero ed era venuto a prendermi per portarmi a comprare delle cose che gli avevo chiesto il giorno prima. Ci siamo fatti 3 ore di motorino sotto il sole e poi mercati, trattative, attese. Sono tornata, la febbre era a 39 e la testa mi scoppiava!! Si sono spaventati tutti, io per prima, ma fortunatamente la sera stavo già molto meglio.

 

Hai insegnato italiano all’università di Ouagadougou, durante quel periodo che differenze hai riscontrato tra il sistema universitario africano e quello italiano?

 

Il Burkina ha adottato il sistema scolastico francese anche all’università. Ed il livello in media è inferiore a quello di una università italiana (parlando delle materie più tecniche). Diciamo che rispetto all’università italiana, l’impressione è più quella di un liceo. Ogni classe ha la sua aula e sono i professori a spostarsi, bisogna fare dei compiti scritti ogni tot ore e gli studenti hanno bisogno di una certa media nei voti per superare l’anno. In generale poi sono abituati a un rapporto molto subordinato rispetto ai professori: il docente spiega e gli studenti scrivono, senza fare domande ed è difficile farli interagire. Quest’anno oltre me, c’è stato un professore italiano dell’Università di Pisa che ha fatto un seminario di geologia con escursione sul campo e ha dovuto penare un po’ per farli interagire.

 

Ci racconti qualcosa in più del tuo progetto di creare una scuola di italiano? Quali sono le difficoltà accennate nella premessa? Sono in tanti a voler imparare la nostra lingua?

 

Più che un progetto a volte temo che sia un’utopia. L’idea è venuta già il primo anno. Poi però da lì è difficile fare le cose e quando torno qui, ricominciano le “altre” cose da fare e tutto resta sempre sul piano ipotetico. Ci piacerebbe creare una scuola di italiano, magari una cosa piccola all’inizio, poi potrebbe diventare un vero e proprio centro per la promozione della lingua e della cultura italiana. Ma è tutto difficile. Intanto bisogna trovare un insegnante italiano, residente in Burkina tutto l’anno. E forse ne abbiamo trovato uno. Poi bisognerebbe poter certificare il corso a livello Europeo, si può fare, ma ovviamente finché non iniziano i corsi, non parte neanche il resto. Uno si chiederà perché un centro di italiano e non un ospedale. La prima risposta banale è perché io non sono un medico, poi una scuola costa poco (dal momento che la struttura esiste già e sarebbe l’università) e l’italiano in realtà è una lingua richiesta, perché moltissime sono le associazioni italiane che cooperano con il Burkina. Inoltre, dal momento che spesso servono traduttori dal francese alla lingua locale, si assiste a scene in cui serve il traduttore dall’italiano al francese e poi dal francese al moré (una delle sessanta lingue locali), con una serie di fraintendimenti e di ritardi facilmente immaginabili. Durante il mio primo anno in Burkina, ho fatto dieci giorni di corso superintensivo per un assistente sociale che lavora in un villaggio sperduto nel niente, dove un’associazione italiana sta costruendo un orfanotrofio. I due referenti italiani che si recano al villaggio ogni anno non parlavano francese e comunicare era difficilissimo. Adesso parlano al telefono una volta alla settimana per aggiornarsi sull’andamento dei lavori.

Oltre al progetto di una scuola in Burkina, hai anche creato il sito www.comeitaliani.it Ce ne parli?

 

Il merito è di Pier, che oltre che fotografo è anche informatico. Quest’inverno, prima di ripartire per il Burkina, non stavo lavorando, non trovavo lavoro e avevo l’umore abbastanza a terra. E’ stato un suo regalo posso dire, per darmi qualcosa da fare. E ovviamente mi ha preso al 100%, ci ho passato le nottate, per capire come funziona il CMS, per creare materiali nuovi da pubblicare, per cercare di pubblicizzarlo con le altre insegnanti… L’idea di base è nata durante il tirocinio per il DITALS: durante il corso ti insegnano delle cose che poi nella pratica fai fatica a realizzare, perché preparare una lezione richiede tempo e fantasia e motivazione. Intendiamoci, sui libri si trova di tutto, ma a volte serve qualcosa di più … vivo, ma prepararlo richiede tempo che spesso non hai. Ogni volta che preparavo qualcosa, me lo mettevo da parte e questo è stato il nucleo dei materiali che ho pubblicato. Poi con la pratica ne vengono fuori sempre di nuove, anche se non sempre ho il tempo impaginare e pubblicare le lezioni. In seguito sono arrivate le prime collaborazioni di colleghe che, come me, preparano materiali originali per le proprie lezioni e che hanno voglia di condividerle. L’obiettivo sarebbe di averne sempre di più e di far diventare il sito un database di materiali di stampo comunicativo per gli insegnanti di italiano L2. Ora sto pensando all’e-learning, ma è un progetto ancora in fase di elaborazione, vorrei fare un master, perché mi sembra un’ottima opportunità per l’insegnamento delle lingue, ma richiede competenze che non ho e sulle quali devo lavorare molto. Ma mi piacciono le sfide e ormai posso dire di essere stata contagiata da Pier e dalla sua passione per la tecnologia!

 

Hai anche aperto il blog sorelleinmovimento. Perché hai scelto di chiamarlo così?

 

Il blog è nato quando ho deciso di andare in Burkina. Mia sorella era in Inghilterra per un master e io non sapevo se e quando avrei avuto accesso a internet, quindi abbiamo deciso di creare questo blog per raccontarci le nostre vite. Poi io sono tornata dal Burkina, lei è tornata da Londra, ma il blog ha continuato a vivere, perché in fondo non occorre spostarsi di continente in continente per essere in costante movimento.

 

 

pa*******@gm***.com

 

http://sorelleinmovimento.blogspot.it/

 

A cura di Nicole Cascione

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