Giulia, dopo la laurea il volontariato in Indonesia

 

Giulia Tolotti è una studentessa universitaria che dopo aver conseguito la laurea triennale, ha deciso di vivere un’esperienza diversa. Ha deciso di andare all’estero, in un Paese lontano, dove poter fare qualcosa di più della turista. Si è rivolta allora all’organizzazione internazionale Aiesec, che si occupa di creare per gli studenti universitari stage di volontariato e di lavoro in tutto il mondo.

 

Come hai deciso di partire? Come hai selezionato il progetto in Indonesia? Insomma, come è cominciato tutto?

 

In effetti… un po’ a caso! Sapevo che mi sarei laureata a gennaio e dunque fino a settembre avrei avuto un periodo libero. La mia idea di partenza è stata quella di andare all’estero, e ho iniziato a pensare come e cosa avrei potuto fare. Ne ho parlato con una mia amica che fa parte di Aiesec Trento, dove studio, e lei mi ha subito indirizzata verso i progetti di Aiesec. Io ora la devo solo ringraziare! Ho iniziato a guardare i progetti disponibili in Asia, ma in quel periodo stavo scrivendo la tesi e quindi avevo la testa da tutt’altra parte. Se poi si tiene conto del fatto che nel database di Aiesec ci sono tantissimi progetti, tanti che se non si hanno delle idee chiare si rischia di perdere giornate intere sul sito, allora si capisce l’enorme pazienza della mia ep manager (membro Aiesec che segue gli stagisti, ndr)! Era lei che mi stimolava, lei che mi proponeva progetti e che mi spingeva a sceglierli assieme.

 

Perché proprio l’Indonesia?

 

L’Indonesia è sempre stata la mia prima scelta, non so nemmeno perché! Mi ispirava e affascinava più degli altri. E in Indonesia ho trovato un progetto legato all’economia, ossia a ciò che studio all’università. Avrei dovuto ricoprire il ruolo di consulente d’azienda lavorando in un team. Ho visto che il progetto sembrava interessante, dunque sono andata in agenzia e ho prenotato il volo. Ho preso e sono andata senza in realtà sapere molto!

 

 

Subito? Ti sei proprio buttata!

 

Sì sì, pensa che non sapevo nemmeno come fare ad arrivare a Bandung, la mia città, dall’aeroporto di Jakharta, la capitale. Non c’era un cartello, un segnale, nulla. E in più quasi nessuno sapeva parlare inglese. Alla fine ho preso un autobus a caso, dove meno male ho trovato un ragazzo che ha saputo dirmi dove scendere. Le due città distano 180km, sarebbero due ore di strada senza traffico, ma io ne ho fatte cinque! Il traffico c’è sempre ed è terribile! Devo dire che è stato davvero difficile comunicare all’inizio. Solo i giovani sanno parlare inglese, ma riescono a spiccicare giusto qualche frase, usando solo parole base. E dato che quasi nessuno parlava inglese, ho imparato io l’indonesiano! Vivevo presso una famiglia che mi ospitava, e il desiderio di poter parlare con la madre ospitante mi ha molto motivata.

 

E’ stato difficile imparare questa nuova lingua?

 

Assolutamente no! È molto semplice: per esempio hanno un solo tempo verbale, viene usato sempre e solo l’infinito, tra l’altro anche tutte le persone sono uguali e quindi il verbo non si declina. Inoltre usano un solo vocabolo per un’intera gamma di parole: ad esempio la parola “makan” si riferisce a tutto ciò che ha a che fare col cibo, è sia verbo che sostantivo, si usa per dire mangiare, colazione, snack, pranzo, ecc.
Non ho dovuto fare nessun corso, l’ho imparato giorno per giorno con l’aiuto delle persone che mi stavano accanto. Gli indonesiani sono felicissimi se uno straniero, un europeo, decide di fare lo sforzo di imparare la loro lingua, e quindi erano tutti molto disponibili.

 

Com’è il loro standard di vita?

 

Io l’ho trovata davvero distante dal nostro paese e dal nostro modo di vivere. Secondo me è sbagliato dire che sono arretrati. Semplicemente vivono alla giornata, e hanno un modo di concepire la vita e quindi il lavoro, davvero diverso dal nostro. È solo qualcosa che gli permette di vivere giorno per giorno, e ogni mattina si inventano modi diversi per guadagnarsi da vivere. Un giorno ho incontrato un imprenditore indonesiano, che mi ha spiegato che il numero di imprenditori in Indonesia è bassissimo, sono meno dell’1%. Ed è una cosa relativamente nuova: ho visitato numerose aziende, e in tutte i dirigenti erano studenti universitari.

 

Pensi sia dovuto in parte alla globalizzazione del mercato e all’imporsi del modello occidentale? Forse è per quello che solo le nuove generazioni si buttano in questo tipo di business…

 

L’Indonesia in questi ultimi anni sta vivendo un’importante boom economico, e tante aziende straniere stanno cominciando ad investire nel Paese. Questo afflusso di investimenti ovviamente attrae i giovani, che hanno più voglia di buttarsi in qualcosa di nuovo e che sono anche i più capaci a cavalcare il cambiamento.

 

 

L’Indonesia è un paese a maggioranza musulmana.

 

Esatto, quasi il 90% degli abitanti è musulmano, e ho notato che la religione è davvero molto sentita. Tutti pregano 5 volte al giorno dovunque siano, e in ogni posto, dal luogo di lavoro al ristorante, ci sono le stanze per pregare. Il bello dell’Indonesia e dell’Islam che praticano in quei luoghi, è che è molto aperto. Innanzitutto le ragazze sono libere di decidere se e quando mettersi il velo. Sono libere di studiare, lavorare, uscire, e non hanno nessuna pressione da parte delle famiglie. Io sono cristiana, e parlando con le persone musulmane che ho incontrato là, sono stata capace di intavolare delle discussioni molto interessanti sull’argomento, e per certi versi sono stati capaci di farmi riflettere su aspetti che non avevo mai considerato.

 

Tu hai vissuto in una famiglia.. com’è stato?

 

Mi sono trovata benissimo, erano tutti di una gentilezza e disponibilità disarmante. La mia famiglia di certo non navigava nell’oro, anzi. Il padre era morto anni prima, e la madre era rimasta sola, disoccupata, a cercare di mantenere due figli. Nonostante questo, cercavano di procurarmi tutto ciò di cui avessi bisogno. Sul Corano c’è scritto che l’ospite deve essere trattato come un re, e così fanno! L’ospite è sacro. Per esempio, sapevano che per colazione mi piace mangiare cose dolci, e allora ogni mattina si adoperavano in modo da farmi trovare qualcosa di dolce. Io non volevo, e quindi compravo molto cibo per conto mio, che poi portavo a casa e mettevo in cucina, così che fosse a disposizione di tutti. Oppure, quando andavamo a mangiare fuori, pagavo io.

 

Hai visitato altri posti oltre a Bandung?

 

Ho fatto tantissimi viaggi. Lo stage Aiesec che seguivo mi lasciava liberi i weekend e quindi facevo delle vere e proprie gite con gli amici indonesiano che mi ero fatta lì, un po’ grazie ad Aiesec, un po’ grazie agli amici delle persone che mi ospitavano. Ah, vi avverto: se avete fatto un programma per il fine settimana, state sicuri che andrà a monte! Lì si vive alla giornata e tutto è molto spontaneo. A volte ho organizzato anche solo mezz’ora prima di partire! Nonostante disagi vari (come le notti passate in macchina!) ho visitato spiagge, città, ho camminato all’alba sui vulcani, ho alloggiato a Bali… bellissimo.

 

 

Come descriveresti Bali?

 

Innanzitutto, Bali non è l’Indonesia. È una città troppo turistica, è come se in quel posto tutto ciò che era indonesiano sia stato smussato e adattato alle esigenze dei clienti stranieri. È una città induista, e questa sua peculiarità a mio parere la rende magica. Nonostante il traffico, i turisti, lo smog, gli ingorghi, la mattina vedi le donne che portano al tempio le offerte avvolte nelle foglie di banano. Ci sono tantissimi templi e le offerte sono di fiori e cibo. È bellissimo quando cammini per la spiaggia e vedi le cerimonie induiste, con le persone che lanciano i petali nel mare per ingraziarsi le divinità.

 

Ma nel Paese si avverte della tensione tra quel 90% musulmano e la minoranza induista?

 

No, le due religioni convivono pacificamente. Mi hanno raccontato che quando per esempio c’è il Natale cristiano, le persone delle altre confessioni fanno in modo che i cristiani lo possano vivere al meglio. E allo stesso modo gli induisti con le feste musulmane, e viceversa. C’è più che semplice tolleranza. Forse è dovuto al carattere degli indonesiani: sono incredibilmente pigri e pazienti.

 

Il loro modo di vivere ti ha cambiata in qualche modo?

 

Di sicuro mi hanno trasmesso la loro tranquillità, la loro disponibilità, e la loro fantastica apertura mentale. Penso di avere davvero vissuto il Paese. Ho visitato città e paesi, ho vissuto con una famiglia normalissima, ho mangiato le loro cose senza mai fare la schifiltosa, ho frequentato alcune lezioni all’università, ho cercato di imparare la loro lingua, ho perfino frequentato un corso di danza tradizionale! E verso la fine della mia esperienza mi rendevo conto che riuscivo a comprendere quello che la gente mi diceva senza sapere la lingua: sono convinta che se una persona parte con l’idea “voglio davvero vivere l’Indonesia”, alla fine riesce a capire quello che c’è da capire, senza nemmeno rendersi conto di come faccia. In Indonesia ho imparato a vivere una seconda volta, tanto è diversa dall’Italia. Addirittura non sapevo nemmeno come fare a lavarmi i capelli le prime volte! Infatti loro non hanno la doccia, tutto il modo in cui è organizzato il bagno è diverso. Bisogna riempire d’acqua (fredda) un grande recipiente attraverso la spina. Dopodiché bisogna versarsi addosso l’acqua con il mestolo, e la stessa acqua la si usa come “sciacquone” per il wc, o la turca. Anche nei bagni pubblici trovi il recipiente con il mestolo.

 

 

Mi diresti una curiosità sugli indonesiani?

 

Non sai che paura hanno del sole! Non vogliono scurire la loro pelle per nessun motivo al mondo. Adorano la pelle bianca, e per mantenersi bianchi fanno cose anche un po’ assurde: vanno in giro con i guanti e i giacconi pesanti, perché le magliette a maniche lunghe sono di tessuti troppo leggeri per non permettere al sole di penetrare! È il loro standard di bellezza, meglio chiarissimi che abbronzati. E sai che mi è successo? Avendo finito il bagnoschiuma che mi ero portato da casa, ne sono andato a prendere un altro in un negozio di cosmetici, scegliendolo un po’ a caso, e ho preso anche una crema. Dopo un paio di settimane mi sono accorta che la mia pelle stava diventando sempre più chiara! Dopodiché ho letto cosa c’era scritto sul flacone: whitening! E il bello è che sono andata al supermercato per cercare un prodotto che non fosse sbiancante e non l’ho trovato!

 

 

A cura di Giulia Rinchetti

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