Artisti senza casa

Zola venticinquenne sfrattato per non aver pagato l’affitto, Vincent van Gogh nella triste notte prima di lasciare Montmartre: viaggio nel dissidio interiore dell’essere artista.

 

Ho percorso con una certa fatica il boulevard Saint-Germain, scansando passanti e vetture in corsa. Il punto che sto cercando mi è chiaro, quello in cui l’antica rue Saint-Victor fa angolo con l’attuale rue Monge. In realtà non inseguo una strada ma una storia. E non un personaggio qualsiasi ma Émile Zola, sepolto da strati d’impalpabile leggenda, circondato dagli aloni postumi della fama.

 

E’ qui che il romanziere alle prime armi, colui che diverrà in assoluto l’autore più letto e discusso del secolo, viene a vivere nella primavera del 1866. Gli anni non hanno sminuito la suggestione del luogo, e se chiudiamo gli occhi per un istante non è difficile tornare a vederlo, l’acuto giornalista che col suo J’accuse! farà vacillare tutte quante le ipocrisie di Francia, mentre rincasa curvo sotto un cumulo di sogni. Quando vi giungo, a un primo sguardo, la via appare solo come l’immensa arteria d’una qualunque metropoli congestionata dal traffico. Mi sfuggono le teorie di comignoli a doppia fila che, una sull’altra, s’inseguono sul fondo grigioblu dei tetti, né noto il pennone scuro di Notre Dame all’orizzonte, in linea d’aria a non più di duecento metri dal punto in cui mi trovo, che è quanto dovette invece osservare arrivandovi il giovanissimo Zola, all’epoca poco più che venticinquenne, nel realizzare il sogno di prendere finalmente casa a Parigi e staccarsi dal giogo rigido della famiglia.  Di questa famiglia non rimangono in realtà che la madre, Émilie Aubert, vedova d’un italiano che morendo le consegna il ricordo del loro tragico amore e questo figlioletto dall’aria vispa, e la nonna materna, Henriette, verso cui il ragazzo serberà sempre un misto di soggezione e rispetto. Non è bello Émile, ma ha negli occhi, nel portamento, la stessa posata dolcezza di suo padre, contrastata dall’irruenza e dall’impazienza del temperamento.

 

 

Cosa c’è nell’infanzia e nell’adolescenza di questo orfano dal destino incerto? I freddi mattini di Aix-en-Provence, le corse fino al collegio condivise con l’amico Paul Cézanne, la febbre smaniosa del racconto e della passione, che quando s’impossessa di lui lo lascia esausto e senza fiato, rantolante come una delle povere bestiole che ogni notte agonizzano sulle sponde erbose della Senna, dove il piccolo ha preso l’abitudine di condurre i suoi passi. Ne ha viste e ispezionate a decine di quelle orribili carcasse: cani senza padrone abbandonati ai crocicchi o sotto i ponti, gatti morti di freddo o falciati dal correre d’una carrozza, ratti intirizziti di dimensioni spaventose, tutto un raccapricciante campionario di morte, che lo apparenta agli aspetti carnali e nudi della vita. Ma quando poi rientra, quando le sue due timorose madri serrano l’uscio di casa per proteggere l’erede sopravvissuto alla sventura, Émile corre a rinchiudersi in quello che è il suo mondo migliore: un mondo pieno di storie, di meravigliosi racconti in grado di ridare la vita a tutti quegli animali senza scampo, risuscitandoli in vicende che sono assai più di trame immaginarie perché hanno dentro il sapore amaro della vita vera, crudele, bastarda, violenta come un pugno allo stomaco.

 

Brani che legge solo al fidato Cézanne, aspettando tremante il fatidico responso, e quando l’altro fa dondolare gli occhialetti tondi sul naso da bambino, Émile sente una gioia incontenibile sciogliersi dentro, colargli giù per il cuore e lungo tutto il corpo, una leggerezza tale da sollevarlo come un angelo.

 

Ha aderito al credo dei vinti, degli ultimi della terra, e quella che presto ritrarranno le sue pagine è l’umanità nuova, la diseredata umanità borghese e popolana di cui un giorno tutti non faranno che parlare. Per ora ne fa parte pure lui, l’inespresso, l’inedito romanziere in erba, il sussultante fanciullo su cui gravano la nostalgia divorante dell’assenza paterna e le apprensioni irrefrenabili delle donne di casa, il flâneur per niente sognante che percorre la città a piedi e sotto la tormenta, attento a centomila storie da decifrare, a miliardi di enigmi da risolvere, carico di quaderni nuovi da riempire – nulla che in definitiva abbia il potere economico di riscattarlo dalla condizione colpevole di orfano e di soccombente.

Tuttavia è solo, un giovane uomo inesperto ma con una camera tutta per sé, ed è il primo tentativo di Émile di affrancarsi dalle agitazioni della madre, ritagliandosi un margine di libertà personale. La solitudine del minuscolo rifugio tra i tetti, la pace degli abbaini disturbata dalle cornacchie, l’aureola di umidità con cui la pioggia incorona lo scendere della sera, accrescono la condizione elettiva del posto: poco importa che al celebre romanziere di domani quest’oggi manchino pure le risorse più elementari per giungere a fine mese e tacciare una volta per tutte l’uggioso padrone di casa. Quando le ripetute pressioni di pagare l’affitto raggiungono l’entità di una vera e propria persecuzione, all’improvviso il filo si spezza: lo scrittore finisce con l’essere messo brutalmente alla porta, con un codazzo di strepiti e d’imprecazioni. Nessuna scusa, nessuna proroga, Monsieur sembra davvero inflessibile, non un’ora di più al povero Émile per allontanare da sé la minaccia dello sfratto.

 

Zola è costretto a raccogliere le poche carte della fatiscente chambre de bonne, i rari volumi impilati col diligente esibizionismo della giovane età, le cianfrusaglie dell’adolescente chiassoso e in rotta con il mondo e lasciare per sempre quello che s’era illuso potesse essere un rifugio.

 

Non ci è dato sapere dove lo condurranno i giorni, dove abbia trovato asilo prima che lo raggiungesse la fama, per il momento ci accontentiamo di descriverne la fatale cacciata, questo momento ostile, vendicativo, pieno di rabbia, che lo rimette al bando degli uomini, davanti a un portone offensivamente lavato dal temporale.

 

 

Un destino non molto diverso da quello di un altro uomo, un alienato, un tormentato geniale ma disprezzato dai suoi simili, un tarchiato rosso di capelli e dall’aria afflitta, che risponde al nome straniero di Vincent van Gogh. Mentre Zola abita il quinto arrondissement, l’olandese lo ritroviamo nel quartiere in cui risiedono gli artisti, a Montmartre, in quello che un tempo dovette essere il più povero della città, ma che ne diverrà, in breve, il villaggio più celebrato.

 

Sono passati vent’anni dall’episodio di Zola, siamo nel cupo autunno del 1888, e da tre giorni la pioggia non ha smesso di cadere. Insieme a Toulouse-Lautrec e ad altri strambi personaggi della Butte, Vincent risale l’ultimo tratto della rue Lepic. E’ sera, sta tornando da una delle solite riunioni piene di urla e di schiamazzi, e ha in cuore il rigurgito schiumante dell’ennesima infelicità. E stavolta non si tratta del dolore di sempre, del vuoto dei pensieri, non è lo struggimento o la giga affannosa che producono gli spettri all’interno del suo cervello, questa volta la ragione dell’angoscia è ben più reale e concreta delle vecchie paure e risiede nel pancione di Johanna, la deliziosa cognata, la moglie di Théo, nella nuova vita promettente che tra nove mesi la donna darà al mondo.

 

Quella vita per il pittore è un lutto, un lutto nero, una festa della natura che produrrà soltanto morte, e sembra ripetergli: vai via, via da qui, fai spazio al nuovo, nessuno potrà più occuparsi di te, togliti di torno, sii maledetto.

 

 

L’artista furibondo che porrà fine ai suoi giorni con un proiettile assassino sparato nelle viscere, il ritrattista pazzo, l’uomo che si strapperà un orecchio per farne macabro dono al tradimento dell’amicizia condivisa, si ritira col veleno nell’anima: andrà via, fuggirà lontano, via dal grigio crepuscolo di Parigi, che nonostante tutto ha imparato ad amare, via dal candido gelo delle sue nevi perenni, lì, verso i colori della Provenza, verso quella regione di desideri e carezze, dove gli artisti non si lascino suicidare dall’esistere.

 

Luigi La Rosa 

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