Isola di Saint-Louis, quel romanzo di amori infelici

 

Per molti l’Île Saint-Louis è il cuore turistico e iconografico di Parigi. Agganciata come un’appendice alla più nota Île de la Cité, alle spalle delle svettanti torri di Notre-Dame, ne rappresenta quasi un ideale prolungamento, una deliziosa parentesi, un approfondimento, una nota a margine. Per alcuni è luogo di eccentriche divagazioni, essendo una zona che raccoglie caffè e ristoranti à la mode. Per me è sempre stata l’epicentro oscuro di una ricerca, il diapason di un viaggio interiore, un punto di fuga da cui ripartire per disegnare l’inquieta fisionomia dell’universo. Siedo come spesso accade dietro i vetri appannati di un semideserto bistrot dell’isola. Non vedo altri modi per riallacciare la parentela con le vecchie suggestioni. Manco da più d’un mese, ma come scordare la pienezza dei silenzi, lo scartocciare delle foglie secche sotto i passi, la febbre dei risvegli dopo le notti febbrili di Parigi, l’aria che odora di freddo dei suoi mattini. Quest’oggi è da qui che partiamo per la nostra passeggiata, e non sarà affatto un percorso lineare, cronologico, una traiettoria semplice ma un affondo, un’immersione, un’accidentata apnea, perché stamani è l’amore infelice, l’amore contrastato, tormentato, inappagato o mal corrisposto il fil rouge che abbiamo deciso d’inseguire, e che qui sull’isola di Saint-Louis sembra aver tessuto il suo più robusto ordito.

 

Munitevi di carta e penna, non esitate, venitemi pure dietro ma in punta di piedi, per favore, perché vorrei lo sentiste anche voi questo rintocco sordo, questo battito dolce e straziante, che qui più che altrove fa tremare l’aria e gelare il fiato: il pulsare mastodontico del cuore di Parigi. E’ tra i vicoli dell’isola, nelle strettoie attraversate dal vento dei suoi mille inverni, che questo cuore è ancora possibile ascoltarlo. Seguitemi, dunque. Coraggio. Non esitate. Lasciamoci dietro Pont de la Tournelle, su cui affaccia la casa di un infelice Paul Verlaine, gravato dall’amore segreto per il giovanissimo Rimbaud e soffocato negli scomodi panni di marito premuroso di Madame Mauté. Al termine del ponte svoltiamo a destra, su Quai de Bèthune, dove oltre la targa che ci dà il suo festoso benvenuto, al 36 scopriamo il portone di un edificio particolarmente suggestivo: quello in cui visse Marie Curie, scienziata polacca, fisica e prima donna docente a ottenere una cattedra all’università della Sorbona.

 

 

Marie giunge a Parigi nel 1891 per studiare e perfezionare una carriera di studiosa che in quanto donna al suo paese le sarebbe stata preclusa. Non in Francia, qui dove nel 1894 incontra Pierre, colui che diverrà suo marito e il padre delle sue bambine. Pierre Curie ha trentacinque anni, ed è pure lui un insigne accademico. Si sposano l’anno seguente, formulando insieme i postulati delle loro future scoperte: le ragioni segrete delle onde azzurro-malva dei sali di sodio che nello sciogliersi divampano, aleggiano, saturano l’aria di una perversa eccitazione. L’isola è testimone di un sodalizio che sembra destinato a durare nel tempo, ma che è segnato fin dall’inizio dall’ombra di più d’un vaticinio. Profezie che si compiono nel freddo mattino del 19 aprile 1906, quando durante una passeggiata Pierre finirà vittima d’un incidente, falciato da una carrozza in corsa a cui parrebbe avere inavvertitamente tagliato la strada. E’ la fine dell’amore, e con esso di ogni serenità domestica. Fortunatamente Marie erediterà la cattedra del marito, prima donna a oltrepassare le sacre Colonne d’Ercole dell’insegnamento nella più ambita università della capitale. Marie è instancabile, lavora giorno e notte, i suoi studi non si arrestano e fonderà addirittura un istituto di ricerca che un giorno porterà il suo nome. Ma la sua sorte è compromessa: anemia plastica è il nome con cui i medici definiranno il male che cova nel suo sangue impetuoso, un morbo scatenato in lei dalle frequenti esposizioni radioattive, malattia che la smagrisce, la deforma, per devastarla infine senza tuttavia intaccarne la generosità intellettuale e la forza lirica del pensiero.

 

Ripensando alla straordinaria inquilina del palazzo che ho davanti non posso impedirmi di chiedermi come sia stata davvero la sua vita, se l’amore per la scienza – probabilmente il suo unico vero amore, e quello per il quale fu disposta a immolare la sua stessa esistenza – non l’abbia sostenuta, sola e malata, nel reggere le incombenze del futuro, le incertezze degli studi, le stimmate dolenti del genio, riconosciuto dal conferimento di ben due Nobel. So bene che non vorreste più allontanarvi dal suo portone, ma il tempo incalza, bisogna assolutamente riprendere il cammino.

 

 

Tagliando per la perpendicolare al quai ci ritroviamo al centro di rue Saint-Louis-en-l’Île, l’arteria principale del quartiere, e la via che lo divide in due metà quasi simmetriche. Oltre questa la perpendicolare riprende lungo la rue Le Regrattier, un tempo rue de la Femme sans Tête, come ricorda l’inquietate statua di donna decapitata, posta a un angolo della strada. Prendete fiato, respirate, premunitevi contro gli assalti dello stupore perché qui l’emozione potrebbe essere davvero grande. Non sentite quel brivido cattivo sulla pelle, quel frizzare sull’epidermide, quel lieve sciogliersi della tensione? Ci stiamo spogliando degli anni, dei secoli perché ora è una creatura dell’Ottocento quella che ci apprestiamo a inseguire, una donna, un’attrice che esattamente in questo luogo aveva la sua prima abitazione. Il suo nome balza alle cronache mondane intorno all’autunno del 1840.

 

 

 

Jeanne Duval – questo il nome con cui l’avvenente creola si esibisce al teatro di Port Saint-Antoine – ha incantato Charles Baudelaire, un poeta che vive qualche porta più in là, al 17 Quai d’Anjou. Un eccentrico, un mezzo matto, ma quegli occhi da assassino e da esaltato sanno fin troppo bene come si seduce una donna. Jeanne lo conosce a teatro, lo rivede per le vie dell’isola, e non si stupisce come tutti dei suoi guanti rosa, né delle oscene pantofole che l’uomo indossa come sacri calzari. Lo fissa con lo sguardo austero, da regina antillana, quello con cui la ritrarrà Manet in Olymphia, il suo dipinto più famoso. Gli va incontro perché lo ama, accetta lo scotto dei suoi sbalzi d’umore, riscalda le sue notti con racconti di lontananze. In poco tempo Baudelaire le chiede di trasferirsi presso di lui, nel lussuoso Hôtel Pimodan a ridosso del fiume, che mantiene grazie ai proventi della contestata eredità paterna e le cui spese sontuose lo spingeranno un giorno nel baratro della miseria e della disperazione. Jeanne si lega al poeta e lo sosterrà fino alla fine, negli anni sconfortanti della malattia e della follia, quando la sifilide lo deformerà dopo aver dato al mondo i suoi fiori di meravigliosa poesia.

 

 

Che succede adesso? Udite pure voi queste grida di donna? Sembrano levarsi dal fondo della città, lungo l’alberato parapetto che da Quai d’Anjou si è trasformato in Quai de Bourbon. E’ lei, ho imparato a riconoscerne la voce, i lamenti che a sera intasano l’aria. Mi riferisco a Camille Claudel, prelevata a forza dal suo atelier di scultrice al 19, e rinchiusa senza nessuna pietà tra le sbarre del manicomio in cui morirà, dopo una vita di appelli inascoltati. Se l’amore infelice dettasse sull’isola il suo sofferto romanzo, quello della disperata Camille per l’egoista Rodin – suo maestro, suo scopritore, suo amante prima e suo carnefice in seguito – meriterebbe di certo il capitolo più importante. Allieva prediletta, modella e amata, Camille uscirà sconfitta dallo scontro titatico con il rifiuto e l’anaffettività del suo uomo (richiamato ai doveri di pater familias dalla moglie Rose, che gli ha pure dato un figlio), poi dalla perversione dei pregiudizi cattolici della madre e del fratello Paul, poeta insignito e ambasciatore di fama. L’anno è il 1913, data della morte del padre, suo unico riferimento e sostegno in una vita che da questo momento in poi somiglierà sempre più a un inferno. La reazione della sventurata si rifletterà sulle opere, distrutte quasi per intero durante le crisi nervose che dovettero assediarla.

 

Per continuare a percorrere questo romantico rosario di amori dannati è sufficiente proseguire lungo il perimetro dell’isola. A volte ricorda quello di una nave, un lungo battello, altre la sagoma di un immenso pesce. Sulla punta, quasi al termine del viaggio che attraversarla impone, il prestigioso Hôtel Lambert, voluto nel 1640 dal ricco finanziere Jean-Baptiste.

La storia di Émilie, marchesa di Châtelet, sembra per certi versi differente, ma solo se la si legge con superficialità. Ad analizzarla bene, dai giusti punti di vista, pure la sua passione per il celebrato Voltaire dovette rivelare in fretta una filigrana di sangue. E’ tra le sale affrescate di questo palazzo, sotto le splendide volte della Galerie d’Hercule, nel delicato Cabinet des Muses ma soprattutto nel Cabinet de l’Amour, vera e propria alcova sentimentale dove la nobildonna riceveva il suo amante, che dovettero scriversi le pagine di un’altra vicenda, insieme affascinante e terribile. Voltaire è il più grande pensatore del suo tempo. Ma i suoi ideali libertari lo hanno messo in cattiva luce agli occhi del sovrano. Scavalcando coraggiosamente lo scandalo e ignorando il ventaglio di pettegolezzi che la circondano, Émilie lo accoglie tra le sue braccia, nelle sue lenzuola, amandolo con una tenerezza e una vocazione quasi adolescenziali. Insieme discutono, leggono, scrivono, e traducono Newton, lo scienziato che ha dischiuso le leggi incontestabili del cosmo. Infine, con la stessa rapidità con cui lo ha scelto e desiderato la marchesa mette da parte il filosofo preferendogli il poeta Saint-Lambert, uomo dagli occhi di fuoco, più giovane di dieci anni, che in verità la sta solo utilizzando per i suoi bassi scopi, e medita di vendicare nel letto della nobildonna l’oltraggio dell’abbandono subito da Madame de Boufflers. Il tradimento non allontanerà l’antico amante, che come il più paziente degli uomini le rimane comunque accanto, anche quando lei resterà incinta del rivale alla magnifica età di quarantadue anni, e poi quando darà alla luce una bambina che perderà nei primi giorni di vita, e quando infine le complicazioni della gravidanza la uccideranno. La marchesa di Châtelet spirerà segnata dal rimpianto per il suo gesto imponderato, ma confortata dalla presenza rasserenante di Voltaire, suo amore di sempre.

 

E’ tempo di rientrare, di concludere la nostra passeggiata, ma qualcosa c’impedisce di staccarci dall’elegante facciata dell’Hôtel Lambert. Forse le note che dall’interno si levano, come una lenta cascata di cristalli nell’aria ferma del mezzogiorno. Lasciate che vi possiedano, che vi attraversino, perché sono le stesse che faranno da sfondo a quest’ultimo racconto di amori impossibili: quello della scrittrice francese George Sand per il compositore polacco Frédéric Chopin. Pure questo in qualche modo legato ai riecheggianti saloni dell’Hôtel, che la donna erediterà dai suoi antenati, e dove spesso condusse il musicista straniero nei primi giorni della tenerezza nascente. Ancora una volta l’isola si fa testimone di una vicenda abitata da un sentimento divorante, ma pure da una solitudine incolmabile. Quella del legame tra la Sand e Chopin è in realtà la storia di un incontro mancato: femminista, socialista della prima ora, donna carnale e in perenne lotta con le ingiustizie lei quanto ombroso, spirituale, languido e misurato lui, fragile come un meraviglioso angelo triste, gravemente ammalato e incapace di reggere gli empiti dell’affezione femminile.

 

Chopin somiglia davvero a un serafino, e del serafino ha le assenze, le intermittenze, i silenzi carichi di mestizia. George è invece una creatura volitiva, che cresce nell’assoluta libertà i tre figli avuti da un precedente rapporto, e non rinnega il suo bisogno di mordere la vita. Mérimée e De Musset sono amanti che faticherà a dimenticare. Di Frédéric rammenterà invece la malinconia, la pensosità, le rassicurazioni costanti sulle sue paure, il tentativo di fargli da madre e come una madre guidarne i passi tra corridoi di spettri. Le difficoltà culminano nell’estate del 1838, che i due amanti e i figli di lei passano a Palma di Maiorca: gli sputi di sangue del musicista costituiscono la prova lampante della sentenza che si abbatte ormai sopra i suoi giorni. Chopin è un tisico e ha le ore contate. Inoltre i conflitti tra i due si accentuano. George Sand si staccherà da lui lasciandolo andare incontro al proprio destino. Lo vedrà un’ultima volta poco prima che lui muoia, osserverà un’ultima volta quegli occhi spenti, che hanno conosciuto gli slanci della creazione, ma che si preparano già al regno delle ombre. Poi, chiuderà per sempre il capitolo di questa passione, sigillando il cuore scosso dalle tempeste.

 

 

Andando via dall’isola non possiamo non pensare all’ultima, singolare pagina d’amore tortuoso. La cronaca dell’innamoramento di Eloisa, nipote del canonico Fulberto dell’anno 1000, per il suo professore di teologia, l’eccellente Abelardo. Ma questa è a suo modo una storia completamente diversa, perché l’infelicità è tutta esterna, lambisce la gioia della coppia come un mare viscido, ma non la bagna. Un’infelicità che i due riescono ad oltrepassare, nonostante gli uragani del vivere, nonostante le lontananze, le violenze subite, i tormenti che furono costretti a sopportare. Ci saranno altre pagine, e una tutta per loro, parole nuove per raccontare quei giorni di delirio e di estasi. Lasciamo che sia ancora una volta l’isola a guidarci.

 

Luigi La Rosa

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