Sulle tracce di Paul Verlaine, nel quartiere più abitato dagli scrittori

 

Rieccomi in città dall’altro ieri, e da due pomeriggi nel bistrot sotto casa in cui passo molte delle mie giornate parigine. Assorbito l’impatto brutale delle emozioni del rientro, l’affiorare disarmante dei primi ricordi, è una nuova consapevolezza quella che sta tornando a farsi rapidamente strada dentro di me. L’idea che Parigi non cambi affatto: si traveste come la più scaltra figlia della Belle Époque, indossa le sontuose maschere delle sue mille rivoluzioni, ti corteggia, ti seduce, ti ossessiona come una malattia dell’anima, t’insegue spalancando le braccia al baluginio di ogni tua minima incertezza, ma al fondo, spogliata d’ogni belletto e d’ogni audacia, è una capitale che conosce le alchimie della dolcezza. Mi trovo, come spesso accade, in questo raccolto bistrot all’incrocio esatto tra il boulevard Saint-Germain e la rue du Cardinal Lemoine, da molti ritenuta la “via degli scrittori” – se consideriamo che fu residenza, in poco meno di un chilometro di estensione, di autori dell’importanza di Cartesio, Joyce, Orwell, Hemingway, Verlaine, e numerosi altri non meno celebri, divenuti autentici numi tutelari del quartiere. E’ qui che mi è toccata la fortuna di abitare. Come tutti gli anni. Ed è stato per puro caso (ammesso che a Parigi si possa davvero parlare di caso e non di misteriose congiunzioni cosmologiche). Stavolta ci sono giunto in ritardo, scavalcando l’estate, forse perché per adesso non erano i caldi mattini di luglio che cercavo ma i brividi freddi, le ombre dense e striscianti, le brume un po’ meste tipiche dell’autunno che sta per nascere. Una fame di oscurità presto esaudita: a pochi minuti dal mio arrivo lucide vene d’acqua hanno preso a rigare pesantemente le vetrate del bistrot, e in quel tumulto d’umido le geometrie della strada, dei palazzi, degli argini della Senna poco lontana, tutto ha subìto immediatamente la sua lenta, sognante metamorfosi.

 

 

Piange nel mio cuore / come piove sulla città / cos’è questo languore / che mi penetra il cuore?” Stavolta non era la mia immaginazione, i versi spiccavano alle mie spalle, chiari come cristallo, nel chiacchiericcio degli avventori del mezzogiorno. Paul Verlaine. Il grande maudit parigino. Il mago, il ribelle, il melodioso vagabondo senza pace. Mi stava venendo incontro con quella che mi sembrava la più suadente, la più coinvolgente delle voci. Ed era a me che si rivolgeva, non potevano esserci dubbi. Mi richiamava all’avventura, all’inseguimento, dopo tanto – forse dopo troppo – silenzio. Come non obbedirgli? Senza ombrello, un po’ come il protagonista di quel celebre film di Woody Allen ammalato di “parigitudine”, mi sono tuffato fuori dal caffè per ritrovarmi dall’altra parte della strada. I semafori, nell’umido, sparavano contro di me tonde pupille rosse e verdi luccicanti. L’aria brillava. Infine ho raggiunto il portone (il suo portone), scoprendo con un fremito che si trovava proprio di fronte al mio, al 2 di rue du Cardinal Lemoine, e all’angolo col prospettico quai de la Tournelle che costeggia panoramicamente il fiume. E’ lì che i brividi di prima sono tornati a percorrermi, e qualcosa come una morsa di gelo mi ha serrato il cuore. “Cos’è, cos’è questo languore che mi penetra il cuore?” E’ forse quello dell’uomo che rinuncia a se stesso, alla sua natura, dell’albatro che s’impone di piegare le lunghe ali e volare basso, tra paludi di sterco e fango gelido. Fintamente assennato, rispettabile impiegato dell’Hôtel de Ville in virtù di segretario, marito esemplare di madame Mathilde Mauté e futuro padre di Georges, Verlaine viene a vivere al 2 di questa elegante via del centro storico, con vista sulla Senna, a due passi esatti dal Panthéon e soprattutto di rimpetto a uno dei ristoranti che più amava frequentare: la Tour d’Argent, tuttora visibile nella sua ampia, storica vetrata blu.

 

Ha sposato Mathilde, questa donna dal cuore d’oro e dalla speranza di un domani appagante, e mi domando ancora perché l’abbia fatto, rinunciando ai suoi desideri profondi, all’amore per i ragazzi, alla passione per la scrittura. Alla vita. Tutte le notti, rincasando, non mancherò di rivolgere uno sguardo all’austerità di quel portone, quell’ingresso silenzioso, cupo, un po’ monumentale e annerito dal tempo, sul quale nessuna lapide campeggia per ricordare chi fu l’inquilino speciale dell’edificio.

 

 

Ma il nostro percorso tra gli itinerari verlainiani deve compiere qualche passo avanti, all’agosto del 1871 quando presso l’editore Lemerre Paul Verlaine si vedrà recapitare la lettera di un giovane sconosciuto desideroso di fargli leggere quel che aveva scritto. Tre liriche, tre momenti poetici che cambieranno per sempre il destino del poeta. E dell’uomo. Mes Petites Amoreuses”, “Paris se repeuple” e “Les Premières Communions”. Nella grafia giovanile e usurata dell’anonimo Arthur Rimbaud – è così che si firma questo eccentrico figlio delle Ardenne – Paul Verlaine riconosce la voce pura e maestosa dei serafini, e un talento in grado d’abbattersi come una scure impietosa sulla stantia tradizione letteraria del suo tempo. Verlaine riunisce alcune delle personalità dell’epoca, Albert Hérat, Léon Valade, Charles Cros e vari altri nomi eccellenti delle lettere francesi per formulare l’invito che più gli sta a cuore: “venite – scrive al ragazzo – venite, qui vi si attende”. E quale sarà la sorpresa nello scoprire che il giovinetto dalla capigliatura spettinatissima e dagli occhi più celesti del ghiaccio ch’egli ha lungamente atteso alla Gare de Strasbourg (vecchia Gare de l’Est) ha già trovato modo di destreggiarsi nella caotica metropoli fino a Pigalle, 14 rue Nicolet, dove vivono i genitori di Mathilde, che in un primo tempo avranno il compito di ospitarlo. E’ uno di quegli incontri fatali che non soltanto cambiano la vita di due esseri umani, ma che sono destinati a mutare il corso stesso della letteratura mondiale. Rimbaud, lo sposo infernale, rappresenta per l’amico e amante più grande tutto ciò che aveva rinnegato o rimosso in virtù del quieto vivere: la passione della carne, la fame di libertà, la necessità di deragliare dai rigidi binari della morale borghese, la liberazione da ogni briglia, ogni legaccio, ogni catena esistenziale. Abbandonerà il domicilio coniugale, la moglie, il figlio e aderendo agli ideali rivoluzionari della Comune finirà per perdere perfino l’impiego storico presso il municipio. Se da una parte morrà l’uomo socialmente affermato e rispettato, dall’altra la crisalide del poeta affogato dai tormenti non esiterà a mutarsi in una splendida farfalla lucente pronta a spiccare il volo sui cieli dell’ispirazione. L’atteggiamento di Rimbaud, invece, è mosso da un indomabile bisogno di stupire, di oltraggiare, di scuotere, forse legato all’amore mai ricevuto nei rancorosi inverni della brutale infanzia provinciale. Non si contano più le dimore in cui alloggia, a volte anche per una sola notte, cacciato a suon d’insulti o di ceffoni. Una delle ultime e più note, quella al 10 di rue Buci, in piena Saint-Germain des Prés. Ospite nell’appartamento al terzo piano di Théodore de Banville, l’autore del “Battello Ebbro” non si preoccuperà di turbare i vicini mostrandosi nudo alle finestre e lanciando in strada, uno via l’altro, tutti gli indumenti.

 

 

Non potevo impedirmi di raggiungere ciò che resta dell’antico edificio, dove si trova oggi un parrucchiere per uomo al quale si accede da un bellissimo cortile, oltre un intrico di bar e di ritrovi alla moda. Non rimane se non una comune facciata cittadina, e l’emozione d’immaginare, di vedere col pensiero, sapendo che lì la letteratura ha lasciato un’altra delle sue più sensibili memorie. Il rapporto tra i due amanti è conflittuale, disperato, a volte crudele, ma raggiunge picchi d’intensità e di devozione che solo i grandi spiriti sono in grado di provare. Non mancano gli scontri, i litigi, le fughe improvvise. Come quella che li vedrà partire per l’Inghilterra e per il Belgio. Poi le minacce, i rancori urlati, le supplicanti richieste di perdono. Verlaine spaventa l’amico intimandogli di tornare dalla moglie, l’altro minaccia di lasciarlo una volta per tutte. Accecato dalla gelosia Verlaine spara, ferendolo appena a un polso, e ritrovandosi in galera. Rimbaud torna nella natia Charleville dove comporrà tra le pagine più alte della poesia francese moderna. Poi, come l’angelo dagli occhi trasparenti che era sempre stato si dileguerà tra le nebbie dell’Africa, del deserto, della leggenda.

 

 

Nel mio bistrot, nel suono rantoloso della prima pioggia di settembre, torno a sentire i versi amari del poeta: “Piange nel mio cuore / come piove sulla città / cos’è questo languore / che mi penetra il cuore?” A questo punto non ho dubbi: sono versi d’amore, versi di tenerezza per l’amato, il suo uomo perduto ma mai dimenticato. Paul Verlaine si sposterà ancora in diversi alloggi senza mai allontanarsi dalla zona, dal n° 48 di rue du Cardinal Lemoine al 39 di rue Descartes, quella che sarà la sua ultima dimora. La raggiungo nel pomeriggio, nella quiete che qui riservano sempre le prime ore meridiane. La via è deserta, nonostante l’omonimo ristorante a piano terra si predisponga ad attrarre una discreta folla di turisti, ricordando che all’ultimo piano del palazzo si è spento uno dei massimi poeti che la Francia abbia avuto. Paul Verlaine morirà a 52 anni, trafelato, annientato, devastato dalle gravissime malattie che lo tormentavano ormai da tempo. Ad accudirlo Eugenie Krantz, la sartina che negli ultimi mesi s’era legata a lui e lo accudiva amorevolmente nelle incombenze giornaliere. Come ricorda la lapide posta sulla facciata dell’edificio un giovanissimo e inesperto Ernest Hemingway, appena approdato a Parigi col cuore gonfio di sogni, farà di tutto pur di affittare l’appartamento in cui era deceduto il poeta. Mi piace pensare che la città sia una grande matrioska di storie, di rimandi, di simmetrie. Di suggestioni. E che questa sia solo la prima di una lunga serie di tracce da inseguire. Sono tornato per cercarle, per respirarle, per riappropriarmene. Sono tornato per sentirmi a casa.

 

Luigi La Rosa

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