Da professore e ricercatore, vi dico cosa penso della Germania

 

 

Il professor Cuniberti vive da anni a Dresda, in Germania, dove è a capo della cattedra di Materials Science and Nanotechnology dell’Università, oltre che del Max Bergmann Center for Biomaterials. "Ho studiato a Genova e lì mi sono laureato prima di un periodo di studi al MIT di Boston. Malinconico dell’Italia sono tornato a Genova per il concorso di dottorato, che ho vinto. Tornato in Italia ho sì ritrovato la "Grande Bellezza" che avevo lasciato, ma mi sono anche reso conto che l’Università non aveva né i mezzi finanziari né l’ambizione di giocare nella serie A della nanotecnologia. Dunque ho finito la mia tesi in Germania, ad Amburgo.

 

E come si è trovato ad Amburgo?

Il primo impatto è stato… duro. Mi sembrava tutto più triste, più grigio, si mangiava male e la scienza non mi sembrava, almeno a prima vista, migliore. Tuttavia le risorse erano di gran lunga superiori a quelle italiane, senza contare che il sistema era, come continua ad essere, più meritocratico. In Germania ho trovato una cultura forte, niente a che vedere con il calderone statunitense. Boston è una città grande e internazionale, si trova davvero di tutto. Ad Amburgo ho avuto un altro shock culturale ma questa volta monotematico: tedesco. Questo era dovuto anche al fatto che il centro di ricerca presso il quale lavoravo era abbastanza piccolo.

 

E’ stato difficile integrarsi dunque.

Al tempo non conoscevo i tedeschi, quindi risponderei di sì. Ma ora che ho capito, e apprezzato, le "regole del gioco" posso dire con certezza che mi trovo meglio qui rispetto ad un ambiente americano.

 

 

Differenze sostanziali tra i due ambienti?

Negli Stati Uniti sembra che si è tutti amici, amiconi, ci si saluta con "Hey how are you doing?" in ogni situazione. Il tedesco è molto più severo nel decidere chi è un amico e chi non lo è. E chi è amico lo rimane per sempre. In America è sempre stato facile fare amicizia ma la verità è che molte sono solo conoscenze. In Germania la corazza interpersonale è decisamente più dura, ma se la si riesce a sfondare si può costruire un rapporto fortissimo.

 

Dopo Amburgo?

Sono tornato a Genova per un post-doc di un anno e mezzo e a seguire ne ho fatto un altro in fisica dei sistemi complessi qui a Dresda all’Istituto Max Planck. Dopodiché ho vinto un Grant della Fondazione Volkswagen. Con quel Grant ho fondato un gruppo di ricerca a Regensburg. E’ stata la prima volta che ho potuto insegnare e seguire allo stesso tempo un gruppo di ricerca. Avevo 32 anni ed ero motivatissimo. Nel 2006 ho iniziato ad avere delle offerte per "andare in cattedra" in diverse università tedesche, tra cui Dresda, che già conoscevo e apprezzavo. Alla fine l’ho scelta, contro il consiglio di tutti.

 

Perché tutti sconsigliavano Dresda?

Perché faceva parte della Germania Est. Per tutti era ancora "Est" ed era impensabile trasferirsi lì quando c’erano offerte da città come Ulm! Ma c’è sempre stato qualcosa di Dresda che mi ha attratto e adesso so cos’è. Innanzitutto Dresda è stata per secoli la capitale culturale della Germania e sta tornando ad esserlo. La ripresa e la crescita della Sassonia è sorprendente, gli investimenti nella ricerca portentosi. Per esempio per quanto riguarda il mio campo, da nessun’altra parte troverei le strutture e i fondi che qui ho a disposizione. Lavoro in un ambiente più che mai interdisciplinare e stimolante. Mi occupo di scienza dei materiali, una vera e propria nicchia che ha bisogno di ricerche di base di stampo chimico-fisico ma anche di collaborazioni con aziende per lo sviluppo dei nuovi prodotti. In questo senso Dresda è sempre stata piena di opportunità.

 

Aveva pianificato fin dall’inizio di costruirsi una carriera in Germania o è successo?

E’ successo. Innanzitutto bisogna tenere conto che se si vuole fare fisica non si può vivere nell’"incesto accademico", è una regola non scritta. La cosa migliore ovviamente è traferirsi in un centro di una certa importanza. Il Max Planck era un posto con una buonissima reputazione, ma ho sempre lavorato con la prospettiva di tornare negli Stati Uniti. Senonchè, mi sono innamorato. La scelta di rimanere è stata dunque di tipo sentimentale. Piano piano son comunque rimasto affascinato da queste Deutsche Vita in cui si lavora di meno, ma si produce di più. Penso sia dovuto al fatto che i compiti vengono organizzati e distribuiti in una maniera molto precisa e meritocratica. Qua se fai il professore, puoi davvero fare il professore. In Italia invece si creano i posti ma senza le risorse per gestirli. Esempio, secondo me calzante: quando qui costruiscono un edificio calcolano nel budget anche le spese di manuntenzione per i primi dieci anni, che vengono messe in un fondo apposito. Prevenire i problemi è più efficiente che curarli. Lavorare in modo efficiente rende la vita più leggera. Al contrario in Italia, a causa dell’intrinseca inefficienza del sistema, il lavoro accademico è abbastanza pesante. Siamo dunque abituati a lavorare di più.

 

Invece i tedeschi ci vedono come dei veri e propri scansafatiche. Un pregiudizio che mi lascia sempre perplessa!

Ancora meglio se ci sottovalutano! I ritmi italiani in un sistema come quello tedesco, che ha una differenziazione del lavoro così estrema e per il quale il work-life balance è molto importante, possono farci arrivare a livelli altissimi!

 

I dati riguardanti lo svilupppo del settore delle nanotecnologie mostrano un netto divario fra Germania e Italia, con il nostro Bel Paese fanalino di coda in Europa per numero di brevetti depositati e la controparte tedesca leader indiscussa. Dati alla mano, sembra logico trasferirsi a lavorare in Germania. Conferma o pensa che in ogni caso anche l’Italia abbia qualcosa da offrire?

L’Italia è molto differenziata, ci sono isole felici nel nostro settore come ad esempio l’Istituto Italiano di Tecnologia di, guarda caso, Genova. Detto questo, dobbiamo considerare che oggi il mondo è finalmente diventato piccolo e rotondo, i costi dei trasporti si sono così abbassati negli anni che è sempre più facile spostarsi. Dunque, data la situazione, se tu volessi imparare, supponiamo, l’ebraico, andresti in un paesino vicino alla tua città dove sai che c’è un professore che ha studiato l’ebraico o prendi l’aereo e vai a Gerusalemme? Ciò che consiglio è andare nei posti in cui le cose sono fatte meglio.

 

Che per il suo settore è la Germania?

E’ sicuramente uno dei migliori. E’ il Paese in cui trasferirsi senza avere enormi shock culturali perché a onor del vero ci sono anche Corea e Giappone.

 

 

Lei gestisce una cattedra in Corea del Sud e anche una negli Stati Uniti. Può dunque vantare una visione d’insieme su America, Europa e Asia!

Ho notato che per alcuni aspetti la Corea è il Paese più interessante. Sono arrivati più tardi dei colleghi occidentali ma stanno crescendo a ritmi elevatissimi e dunque investono nella ricerca. Certo, è una cultura diversa piena di ostacoli, la lingua in primis.

 

Giusto, parliamo della lingua! Com’è stato l’impatto con il tedesco?

Un dramma. Soprattutto per la vita sociale. All’università si fa tutto in inglese e il tedesco quasi non serve. Il problema è quando si deve parlare con l’amministrazione, il rettore, la comunità locale, i politici, gli industriali. Ho fatto l’errore di non seguire alcun corso di lingua e di essemi limitato a impararlo sul campo, parlando con la gente. All’inizio mi sentivo un idiota ad uscire con amici tedeschi e capire così poco. Ancora oggi il mio tedesco è molto rudimentale. (non è vero, ndt).

 

Sommando tutto, come si trova in Germania?

Bene, benissimo! Non ho trovato veri problemi, ma solo sfide. Ho potuto realizzare il mio sogno di fare ricerca in modo indipendente, una ricerca che viene ben finanziata, e lavoro in un sistema altamente meritocratico. So che se lavoro arrivo a un output. In Germania ho ottenuto la cattedra come professore ordinario a 36 anni. In Italia sarei arrivato allo stesso risultato dopo la terza operazione di prostata.

 

Nelle classifiche dei Paesi migliori in cui emigrare, la Germania è sempre in testa. Tuttavia gli expats di tutto il mondo trovano difficile integrarsi con la popolazione locale. Dal punto di vista della vita lavorativa, della carriera, sono completamente appagati. Ma per quanto riguarda l’aspetto umano, l’insoddisfazione è tanta. I tedeschi sono generalmente freddi e chiusi, l’immigrato è visto con sospetto.

E’ vero, ma a me questo piace. In generale i Paesi nordeuropei sono quelli economicamente più sviluppati e anche notoriamente più rigidi dal punto di vista dei rapporti sociali rispetto ai Paesi sudeuropei. La freddezza ha i suoi vantaggi, per esempio aiuta a far rispettare la legge e implementa i risultati. Dove la "compassione" è alta, le performance sono peggiori. L’unico paradosso che conosco è la California.
Bisogna però guardare anche l’altro lato della medaglia: qua in Germania c’è un rispetto per l’altra persona che è incredibile. Se tu ti fossi presentata con i capelli fucsia, da italiano avrei subito pensato "ma questa da dove salta fuori?". Un tedesco se ne sarebbe semplicemente infischiato, forse qualcuno avrebbe pensato "ma dai, che bel colore". Il tedesco non ti giudica (o se lo fa, non lo mostra). Qua si può andare alla Semperoper, uno dei teatri più belli e con una delle orchestre più apprezzate del mondo, anche vestiti casual. Si può fare lo stesso alla Scala?

 

Si trova bene anche in Corea?

Sì, molto, e sembrerebbe difficile dato che è un Paese così diverso in cui l’integrazione sembra difficile. Tutto sta nel modo di porsi, nell’imparare a essere cittadino del mondo. Se vai all’estero ma ti ostini a volere la focaccia al formaggio di Recco, il sugo di noci o il vero pesto genovese allora fai la vita grama. La domanda è: siamo disposti, come expats, a integrarci? O vogliamo portare con noi Little Italy?.

 

In Italia sembra fondamentale fare l’università alla velocità della luce. In Germania anno sabbatico e semestre libero sono la normalità.

La Germania è un paese ricco, il lavoro è tanto. Guarda il Sorpasso con Vittorio Gassman o, in generale, film italiani degli anni sessanta. Quanto erano rilassati?! Se la società è ricca, è anche rilassata. Il problema "di fare in fretta" è nato negli anni 90. Altra ragione: il panorama imprenditoriale italiano è composto da realtà medio-piccole, aziende manifatturiere ed artigiane che vogliono dipendenti efficienti. E’ dunque naturale che siano più predisposte ad assumere laureati giovani, piuttosto che trentenni con un curriculum accademico stellare. La grande azienda, per contro, ha bisogno di gente che faccia strategia, che sia in grado di far ricerca e progettare. Penso dunque a Bayer, BMW, BASF.

 

Non ho più domande! Lei vuole dire ancora qualcosa, ha un messaggio che vuole assolutamente lasciare ai posteri?

Sì! Bisogna sempre tenere presente che il lavoro non è tutto, bisogna cercare anche di vivere bene e avere una vita appagante da ogni punto di vista. Il datore di lavoro lo si può sempre cambiare. Il problema di questa generazione è che mancano i maestri, persone che globalmente possano giudicare le nostre scelte e consigliarci. Ormai le persone adulte vengono viste non più come chi sa di più, ma come chi non sa navigare su internet. E così mancano figure di riferimento e si arriva a una situazione per la quale le possibilità sono molte, ma il disorientamento è ancora più grande. Tutto ciò crea degli scompensi enormi, falsi ideali, in questa libertà acquisita io vedo tantissimo disorientamento e incapacità di adattarsi. Ubi bene, ibi patria. L’universo è dentro di te, l’apertura mentale ne è la chiave e la si costruisce anche grazie ai maestri. Devo dire che la ricchezza della struttura familiare è una cosa che noi italiani ancora abbiamo. Una tendenza in cui la Germania ci sta anticipando è quella dello iato tra le generazioni. Il genitore anziano, non più autosufficiente, viene alloggiato in strutture di ricovero e le sue sofferenze e gioie sono sicuramente ben gestite, ma lontane dal quotidiano di figli e nipoti. I miei genitori invece mi hanno sempre aiutato moltissimo, consigliandomi e supportandomi e ancora oggi penso a loro con una gioia infinita. Quando sono diventato professore mio padre è riuscito a stento a camuffare la sua fierezza. Doveva sempre fare il duro, ma il mio successo professionale ha rappresentato la conferma della sua linea educazionale. Il tedesco ragiona in modo diverso: siamo noi gli artefici della nostra vita e per questo dobbiamo fare in fretta a camminare sulle nostre gambe. Ma la guida è fondamentale, è come la piuma di Dumbo: in sé potrebbe non servire a nulla, ma ti fa sentire fortissimo.

 

 

A cura di Giulia Rinchetti

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