Jitka: la mia esperienza di volontariato a Calcutta

 

Jitka è la brillante Relashionship Manager di cui avevamo parlato nell’intervista precedente. Ci aveva raccontato del suo successo nel campo delle pubbliche relazioni a soli due anni dalla laurea, delle sue future aspettative di lavoro, e ci aveva parlato della meravigliosa città dove lavora: Praga. Ora invece cambia decisamente tema, e ci racconta dell’esperienza che più di tutte l’ha cambiata, che più di tutte l’ha colpita: il volontariato a Calcutta.

 

Raccontami com’è partito tutto.

 

È partito proprio dal nulla. È stata una serie di coincidenze assurde in effetti. Mi trovavo in Inghilterra per fare visita a mia madre e mia sorella, e un giorno eravamo andate al cinema a vedere Slumdog Millionaire. Prima di quel giorno non mi ero mai preoccupata o informata particolarmente sulla situazione dell’India, e nemmeno ne sapevo più di tanto, ma quel film mi ha colpito moltissimo. Coincidenza volle che nel tornare a Praga, in aeroporto ci fosse la rivista Marie Claire che offriva, insieme al numero del mese, una crema. Così l’ho comprata e sfogliandola ho adocchiato l’articolo “slumdog holidays”. Per pura curiosità ho approfondito guardando il sito, e ho scritto un’e-mail per ricevere ulteriori informazioni. In quel periodo era anche disponibile uno sconto sul totale del prezzo che avrei dovuto pagare per poter partecipare all’iniziativa, ma dovevo accettare entro pochi giorni, così ho chiesto l’approvazione ai miei genitori, ho selezionato l’unico programma per me disponibile (nel senso che era l’unico che durava il numero di mesi che potevo effettivamente permettermi di investire), che prevedeva Calcutta, e sono partita. Tutto nel giro di pochissimo tempo.

 

E non ti spaventava l’idea di venire catapultata così dal nulla addirittura a Calcutta? In fondo non avevi mai fatto volontariato, non facevi parte di organizzazione, ecc…

 

Effettivamente un po’ ero spaventata! Devo dire che certe storie che avevo sentito sull’india mi avevano proprio terrorizzata! Però sapevo che era la cosa giusta da fare, e sono contenta di averlo fatto.

 

Cosa facevi, nello specifico?

 

Lavoravo per l’istituto IPER di sviluppo psicologico e pedagogico, una ONG indiana che accoglie bambini come un dopo-scuola o proprio in sostituzione della scuola, perché molti non ci possono andare. Insegnavo inglese, ma in realtà un po’ di tutto. Mi recavo all’istituto tutti i giorni, e andavo una volta a settimana in un altro istituto, ma presto scrissi alla direttrice chiedendo di poter vedere altre scuole, per darle poi il mio punto di vista su cosa si potesse migliorare. Per farti un esempio una mattina arrivai alla Iper School for Working Children. Già il fatto che fosse una scuola per bambini lavoratori era allucinante. La motivazione di quei bambini era il cibo: se passavano tutta la giornata a scuola allora gli davano da “mangiare”, ossia 4 fette di pane e un frutto e una polpetta vegetariana. Ma per loro era sufficiente come motivazione. Arrivata in questa scuola rimasi scandalizzata dal comportamento degli insegnanti. Infatti mano a mano che arrivavano i bambini, iniziavano ad urlargli in bengalese. Non capivo cosa dicessero ovviamente, ma immaginai fossero cose come “prepara il tappeto, fai questo, pulisci quello”. L’obiettivo della scuola era di togliere i bambini dalla strada e dal lavoro, non certo di trattarli come schiavi, un approccio del genere era completamente controproducente. Una cosa su cui poi insistetti molto fu l’igiene, che è uno dei loro problemi principali, anche per cose basilari come mettersi la mano davanti quando si starnutisce, o lavarsi le mani dopo essere stati in bagno… feci tutta una serie di annotazioni che la direttrice ritenne molto utili, e quindi mi mandò a visitare anche altre scuole.  Vidi condizioni allucinanti. Alla Iper in un’aula di 30 metri quadrati a far tanto, venivano stipati anche 50 bambini di età tra i 5 e i 17 anni. Per me rimane un mistero come facciano ad imparare qualcosa in quel caos, ma di fatto tutti sanno scrivere, sia in hindi che in inglese, sanno contare e fare tante altre cose.

Qual è la cosa che ti ha colpito di più dell’India?

 

Il suo essere Anarchia Organizzata. L’India è questo. Un caos allucinante dove però le cose funzionano, chissà come! Un’altra cosa che mi ha colpito è il sovraffollamento: per quanto se ne legga e per quanto ci si documenti, finché non si vede con i propri occhi quante persone ci sono, non se ne ha idea, non lo si può nemmeno immaginare. Calcutta è una città grande come Milano, ma con 15 milioni di abitanti, contro l’1,5 di Milano. Pensa di camminare per le strade del capoluogo lombardo, che già a noi sembra piuttosto gremito, e vedere attorno a te 10 volte più persone. Pazzesco! Ci sono persone davvero ovunque. In Italia quando si viaggia in autostrada si passa per dei campi deserti, dove non c’è mai nessuno, magari qualche trattore qua e là, mentre in india ci sono persone anche in mezzo ai campi, anche in mezzo all’autostrada, anche nelle gallerie. Una volta sono passata col treno in una galleria e mi era venuto quasi un infarto perché dal finestrino aperto vedevo persone perfino lì!

 

Una cosa che mi ha colpito davvero tanto è il loro modo così positivo e soprattutto onesto di vedere la vita.

 

Ti faccio un altro esempio per spiegarmi meglio. Stavo viaggiando con mia madre, che mi aveva raggiunta con un altro gruppo di volontari, e stavamo per prendere una rickshaw per andare al mercato. L’uomo che ci doveva guidare si offrì di portarci anche ad una fabbrica di tessuti e di vestiti, e ad una fabbrica d’argento. Facemmo uno shopping favoloso a prezzi ovviamente stracciati, e come ultima tappa ci portò a cena da un suo amico, che aveva un negozio di pietre preziose. Arrivati al negozio specificammo che non volevamo più comprare niente perché avevamo speso abbastanza, ma l’uomo ci disse che non dovevamo assolutamente preoccuparci perché eravamo delle ospiti. Disse che avrebbe anzi portato da mangiare, e lui e il suo amico sparirono per 10 minuti buoni, lasciandoci completamente sole nel negozio. Quando tornarono gli chiedemmo come avevano potuto lasciare due sconosciute in un negozio incustodito: avremmo potuto rubare tutto e scappare! Ma l’uomo rispose semplicemente che in quel caso sarebbero stati solo affari nostri, perché sarebbe diventata una questione tra noi e il nostro karma: ciò che fai di male ti si ritorce contro.

 

È una cosa che non ci si aspetterebbe, andando in un paese così povero e per molti versi disagiato.

 

Esatto. La gente è molto amichevole e disponibilissima ad aiutare. Comunque ho visto cose allucinanti e mi sono dovuta davvero armare di forza, perché una volta lì ti rendi conto che non puoi aiutare tutti, e quindi non ti puoi sentire in colpa per quello che vedi.

Cosa hai visto di così duro?

 

Un’infinità di cose. Cose fuori di testa. Persone che vivono in ogni angolo delle strade, persone con strane malattie, con tumori giganti su varie parti del corpo, bambini di 2 anni in giro da soli per la strada, cani che sembrano avere l’AIDS, cani aggressivi ovunque, tanta tanta sporcizia, soprattutto Calcutta. Ci sono parti più civilizzate, come Shimla che è più a nord, sull’Himalaya, ed è molto più pulita. Calcutta invece è il caos. Il traffico è incredibile: strade a due corsie si trasformano tranquillamente in strade a 4 o 5 corsie. Poi gli indiani suonano il clacson in continuazione, è quasi un hobby! C’è tantissimo inquinamento, a livelli quasi inimmaginabili, tanto che quando si arriva a Calcutta, scesi dall’aereo si vede la cappa di smog su tutta la città. Tanto è vero che fa un caldo pazzesco, ed è impossibile scottarsi data la “protezione” che fornisce questa cappa.

 

Pensi che sia stato utile quello che hai fatto?

 

Sicuramente. In poche settimane ho visto risultati davvero notevoli. Mantenere l’attenzione era difficilissimo. Se il primo giorno ero una specie di Dea Bianca cui baciavano i piedi (ero l’unica volontaria in quel periodo), già il terzo giorno quegli stessi bambini si erano trasformati in delle bestie incotrollabili. Ho escogitato vari metodi, come dare le caramelle a fine lezione solo ai meritevoli, oppure dividere le lezioni in parti via via meno difficoltose e impegnative mano a mano che la mattinata procedeva. Usavo i loro nomi per le frasi da esempio, per mantenere viva l’attenzione, oppure davo voti molto variegati. A chi era stato attento e si era impegnato scrivevo “Very very good” sul compito e facevo un timbro colorato, mentre a chi non si era impegnato spiegavo gli errori e scrivevo solo “ok”: era una cosa così umiliante per loro, che davvero trovavano una motivazione in quel timbro colorato. Insomma, ho provato a dargli un’impostazione. Anche dal punto di vista dell’educazione igienica: avevo insistito così tanto sul mettersi la mano davanti alla bocca quando si starnutisce, che alla fine avevano imparato a farlo automaticamente. È un’esperienza che mi è rimasta dentro, che mi ha cambiata.

 

In che modo?

 

Innanzitutto, continuo a tenermi in contatto con loro e ora cerco persone disposte a sponsorizzare quei bambini, così che possano ricevere un pasto completo 6 volte a settimana, la divisa, i libri per la scuola, l’assistenza medica… sono 145 euro all’anno che gli cambiano completamente la vita. Ho trovato numerosi sponsor finora, e quindi continuo in qualche modo ad aiutarli, gestendo tutto io, senza intermediari. L’India la ami o la detesti. Se riesci ad amarla diventi automaticamente più aperto,, più flessibile e tollerante. Più paziente soprattutto, perché là tutto funziona a rilento, con mille complicazioni inutili. Insomma, è una bella prova per i nervi. Cerco continuamente di avere a che fare con l’India. Quest’anno qui a Praga mi sono fatta coinvolgere nel Festival del Cinema Indiano e nel festival del Cibo Indiano, entrambi messi in piedi da un istituto non profit. Avevo conosciuto gli organizzatori mediante una media partnership con la rivista, e gli avevo poi offerto il mio aiuto per l’evento. Ho dato una mano ad organizzare, mi sono occupata della promozione e del marketing, ho creato delle nuove strategie di revenue, ossia nuovi tipi di sponsorship che costavano di più e che sono stati il doppio più redditizi rispetto all’anno passato, e ho gestito tutti i contatti con i ristoranti che già conoscevo perché clienti del mio giornale. Io personalmente sento che l’esperienza mi ha molto arricchita. Non c’è giorno che io non pensi a quello che ho fatto laggiù, è diventata una parte di me.

 

jm********@gm***.com

 

A cura di Giulia Rinchetti