All’ombra della torre Eiffel, il più amato e contrastato monumento parigino

 

 

 

Rivedere Parigi, riscoprirla a distanza di qualche mese dal mio ultimo soggiorno riserva emozioni, sorprese, pensose domande, specialmente in un periodo come quello natalizio, durante il quale la fisionomia della città incomincia gradatamente a trasformarsi, ovunque si accendono le luci d’inghirlandati tripudi, gli abbagli di finte felicità, e l’atmosfera di festa obbligata serve forse in realtà solo a nascondere le incertezze della crisi, gli esorcismi del baratro in cui stiamo precipitando.

 

Questa volta non abito in centro: una iperaffollata linea 11 della metro mi trasporta tre volte al giorno dai multietnici intestini di Belleville allo snodo vertiginoso e brulicante di Châtelet, questo cuore nevralgico, questo alveare, questo vitale snodo arterioso intorno al quale convergono tutte le direzioni del mondo, e che il romanziere Julio Cortàzar ha immortalato in uno dei suoi più appassionanti racconti.

 

Stavolta esco presto, nel mattino grigio-vetro della capitale, quasi volessi sorprendere l’alba, il gelido tuorlo d’uovo che si stende sui tetti e sugli abbaini come una lenta mano di luce. Tutt’intorno le vie sono quelle di sempre, le trafficate pendenze che dal centro s’inerpicano verso le colline di Pigalle e Montmartre, il nero silenzio di Notre-Dame, più ferma e più austera del solito, il livido mareggiare della Senna lungo i canali di scolo e i bassi argini sui quali, nonostante l’aria nevosa di dicembre, qualche coppia di giovani amanti s’ostina a passeggiare controvento.

Rieccomi dunque a Parigi, la Parigi che amo e che mi è mancata di più, eccomi nuovamente qui a qualche settimana dalla fine dell’anno, coi ricordi dell’estate ancora sulla pelle, gli accecanti mattini di luglio, le notti errabonde, la malinconia tersa di settembre, il cadere delle prime foglie, e basta davvero poco perché gli orizzonti si sgretolino, la topografia si estenda moltiplicata, gli arrondissements tornino a crescere come per un incantesimo poderoso e nel caos prefestivo di bistrots e arrondissements io abbia la netta sensazione di ritrovare sguardi, volti, sorrisi.

 

Pochi minuti di viaggio nel buio del sottosuolo, poche fermate ancora, prima di emergere in una Place du Trocadero quasi del tutto deserta, elegante e sobria, viva e distaccata, al di qua del possente muro di pietra del cimitero di Passy che raccoglie, tra gli altri, il sepolcro in cui riposano Berthe Morisot – la più affascinante e nota pittrice del quartiere -, il marito Eugène, e il cognato Edouard, vertici di un triangolo sentimentale e psicologico che non riesco a non immaginare pieno di ambiguità, di tensioni sottaciute, desideri inespressi forse soltanto segretamente appagati.

 

Siamo in una delle zone cittadine più conosciute: pochi isolati dalla casa in cui muore Maria Callas, voce più bella del ventesimo secolo e artista che sublima nelle stimmate della propria biografia il rapporto insostenibile tra melodramma e vita. E siamo, sostanzialmente, ai piedi di quello che, nel bene e nel male, resta innegabilmente il più chiacchierato monumento francese di ogni tempo: la torre Eiffel, dal nome di colui che per primo la immaginò, la ideò, la sognò fiera e svettante nel cielo senza stelle di Parigi.

Interessante riscoprirne le vicende, le suggestioni, la storia esemplare e contrastata. L’8 novembre del 1884 l’allora presidente della repubblica Jules Grévy decreta in maniera definitiva la data ufficiale della Nuova Esposizione Universale. La popolazione è in subbuglio. Le amministrazioni fremono. Gustave Eiffel presenta il suo faraonico progetto sulle pagine di “Le Génie Civil”, avventurandosi in una fitta serie di conferenze finalizzate a proclamare ai cittadini il suo strabiliante progetto: mettere in piedi una torre di 330 metri, che s’innalzi in nome del progresso tecnologico, figlia del secolo dei Lumi e della consapevolezza che dissipi la tenebra dell’ignoranza e della superstizione.

 

Non fatico a visualizzarlo questo piccolo ma cocciuto ometto impegnato a difendere un sogno ritenuto pura follia, questo Don Chisciotte contro i mulini a vento della sordità e del pregiudizio. Eiffel non si arrende, non demorde, resiste orgoglioso a tutte le raffiche ostili, è un combattente nato, un profeta, un invasato, e sa bene come affrontare la guerra aperta del nemico.

 

Il 14 febbraio, a lavori iniziati, “Le temps” si farà portavoce delle rimostranze che uniscono contro di lui i maggiori intellettuali del momento: Charles Gounod, Alexandre Dumas fils, Guy de Maupassant, Leconte de Lisle, Sully Prudhomme. E non manca chi, come François Copée, vi dedicherà addirittura un malevolo poemetto che ritrae la torre come: “Œuvre monstruose et manquée / Lord colosse couleur nuit / tour de fer, rêve de Yankee.”

La torre annovera più detrattori che seguaci, la sua potenza materica sembra quasi un insulto alle architetture eteree della più eterea tra le città. L’enorme colonna che ha già iniziato la sua ascesa verso il cielo rimanda addirittura a un’altra spaventosa torre: quella di Babele, luogo bizzarro in cui cozzano tutte quante le incomunicabilità dell’universo. Non si risparmiano insulti, malignità, balorde associazioni sessuali. La gente ride davanti alla satira che si prende gioco di Eiffel, ritraendolo con l’arguzia e la disinibita cattiveria delle prime pagine nelle situazioni più assurde e meno decorose. Forse, solamente a Emile Zola, con la coraggiosa parentesi morale del suo “J’accuse!”, toccherà subire una simile campagna diffamatoria e scandalistica da parte della stampa.

 

Tuttavia, schivando tonfi, battaglie e attacchi Eiffel procede, gradino dopo gradino, come in quel bellissimo pezzo di Dino Buzzati – “La Torre Eiffel” – in cui gli operai che stanno prendendo parte all’inquietante sforzo ascensionale del gigante cominciano a covare un sogno più grande di loro, forse una vera e propria utopia: chiudere per sempre i ponti con la realtà bassa e vischiosa della vita perché non c’è limite al desiderio che li muove, alla visione che li agita, che li ha reso fratelli, che li intimorisce ma che dà loro l’impagabile brivido di sfidare il mondo e le sciocche leggi della fisica e dell’aerodinamica.

 

A dispetto dei menagrami e dei tromboni pronti a sputare sulla fantasia creativa del celebre ingegnere, l’Esposizione Universale si rivela un autentico successo, consacrando il nome di Gustave Eiffel nel libro d’oro dei francesi degni d’ammirazione. La torre verrà inaugurata il 15 maggio del 1889. In una sola settimana 28922 visitatori disposti a salire a piedi, non essendo ancora ultimati gli ascensori del primo e del secondo piano. 173 giorni di presenze ininterrotte, con una frequenza media di 12.000 visite quotidiane. Tra la folla ospiti illustri come Edison e numerosi altri.

L’antica intuizione di Eiffel lancia l’ennesima sfida: in breve tempo il monumento riverbera ovunque il primato della sua inconfondibile fama: la struttura oblunga e piramidale della torre viene vistosamente replicata dappertutto: prolifera negli oggetti da cucina, negli accessori da tavola, nelle lunghe aste che sostengono i lumi, nelle riproduzioni su tutte le scale che è possibile acquistare solo ai magazzini Printemps, delle quali l’acuto direttore s’è lucrosamente accaparrato il copyright.

 

La torre Eiffel si rivela il più grande, il più fertile affare imprenditoriale del secolo. Non c’è nulla di paragonabile al mondo. Persino l’Inghilterra tenterà di imitare il prodigio appena inaugurato, ma il progetto si arresterà dopo una guglia non più alta d’una cinquantina di metri, mentre la fortunata torre parigina continuerà ad accendere la notte del Champs de Mars coi suoi trecento fari bianchi e accecanti, racchiudendo nel suo budello verticale diversi ristoranti, delle boutique alla moda, un teatro, un centro-studi meteorologici in grado d’invertire l’ondata d’invettive delle quali Eiffel era stato vittima. Sui giornali – gli stessi giornali assoldati all’opinione ostile di prima – si finisce per non parlare d’altro, per celebrare la capacità del costruttore, molti degli artisti che prima avevano lanciato il loro velenoso anatema depongono definitivamente le armi, piegandosi al genio, al talento, alla forza di volontà con cui Eiffel continuerà a difendere, a spada tratta, la sopravvivenza del suo immenso lavoro. Lo stesso Maupassant sarà uno dei frequentatori abituali del ristorante del secondo piano: celebre l’aforisma con cui ha cercato di giustificarsi per il suo repentino cambiamento d’opinione: “Se vengo a cenare in questo luogo, è solo perché è l’unico punto di Parigi dal quale la torre non si vede!”

Mi pare di tornare a sentirlo questo chiacchiericcio mediatico, questa ruggente onda emotiva che fremendo, si solleverà sulle coscienze, sugli animi accesi, sui sentimenti che segnano il mito visionario di Parigi. E mentre mi allontano, nel fiume di automobili e di mezzi che intasano il traffico cittadino, mentre le prime acuminate gocce di pioggia riprendono a cadere con violenza sul mio viso scoperto un pensiero prende vigorosamente forma dentro di me: forse, non esiste neppure un’unica città, ma cento, mille, infinite, quanto infinite ed eterne sono le utopie che la abitano, o i sognatori che hanno dato alimento al suo mito intramontabile. Infinite Parigi, come gli infiniti ritorni di coloro che la amano e che continuano a sceglierla.

 

 

Luigi La Rosa