Sulle tracce della Sibilla

 

 

V’è una Parigi primordiale, nera, allucinatoria e per coglierla al meglio vi raccomando un mattino di primo autunno, scegliete uno di questi freschi giorni di settembre in cui l’aria è opaca come un cristallo usurato e dal cielo vien giù una luce greve, densa, rarefatta.

 

Seguitemi, amici, perché questa sarà una passeggiata completamente diversa da quelle che abbiamo fatto finora attraverso le meraviglie della capitale francese: quest’oggi sarà il mistero a guidarci, l’arcano delle ombre, dei deliri segreti, delle possessioni irrazionali, a tessere il gelido filo di nebbia in grado di condurci nei territori dell’allucinazione e della deriva.

 

La linea delle metro è la 5. La fermata: Laumière. Ci troviamo nella parte nord-est della città, non lontano dalla Belleville di Edith Piaf e dei romanzi di Romain Gary col loro risonante universo multietnico, e neppure il Père-Lachaise, quel vasto impero della morte, è troppo lontano dal luogo in cui ci stiamo per dirigere. Eppure, il parco nel quale c’introduciamo, conosciuto a Parigi come Buttes Chaumont, se non il più grande, è fuor di dubbio il più oscuro, il più sinistro e solitario, e domina l’orizzonte con la sua quinta amena e lussureggiante. Pure questo imponente giardino è frutto della spettacolare volontà esibizionistica del suo secolo: Napoleone III affiderà l’incarico al potente barone Haussmann, in vista della Grande Esposizione del 1867, e a sua volta il barone incaricherà dei lavori l’ingegnere Jean-Charles Alphand.

 

Difficilmente comprenderemmo l’essenza intima dell’ambiente che ci circonda, senza soffermarci un momento sulle concezioni estetiche di chi l’ha voluto, meditato e progettato. Pienamente figlio del tempo, Alphand elabora la poetica di un habitat altamente sofisticato, frutto di un interessante innesto: la libertà istintiva e istrionica della natura arginata tuttavia, e come scolpita, dalla volontà creativa dell’uomo. Lezione che gli deriva forse dalla passione e dallo studio dell’arte dei giardini d’Oriente.

Egli rifugge le lande incolte, le foreste fitte e impenetrabili, la spaventevole idea di una vegetazione selvaggia e aggressiva a ridosso della civiltà: il suo sogno è lasciare l’orma di una bellezza tangibile, piena di armonia, dall’aura metafisica e trascendentale, e il giardino, il suo giardino ideale, quello che accoglierà i primi visitatori nella calda estate del 1867, sarà l’opera di una fusione perfetta in grado di accordare le risorse spontanee offerte dalla natura con l’abbellimento laborioso e sapiente dell’artista.

 

Dapprincipio, la collina è solo l’enorme cava di gesso dalla quale viene prelevato il materiale adoperato nella riedificazione massiccia del centro storico: nel progetto realizzato da Alphand ci sarà un ampio lago artificiale, alimentato da due sottili canali discendenti che si aprono il cammino tra i massi smussati dalle acque dell’Ourcq – vi saranno anfratti e grotte simili a caverne, e dentro di esse cascate e spumeggianti salti d’acqua, e ancora, al centro del lago, una rupe alta trenta metri, a dir poco spettrale, raggiungibile da due ponti simmetrici detti “ponti dei suicidi”. La ragione dell’infelice appellativo credo risulti abbastanza ovvia.

Ma la genialità di chi ha pensato questo autentico capolavoro nel cuore della città non si ferma qui: in vetta alla scoscesa parete di roccia contornata da faggi rossi che le conferiscono quella particolare sfumatura rugginosa e sanguigna – vi consiglio di visitare il parco prima del crepuscolo, quando l’ultimo sole indora le sue venature e le sue sporgenti croste di pietra – si è deciso di installare un grazioso monumento soprannominato Tempio della Sibilla, a imitazione di quello di Tivoli, e realizzato dall’architetto scultore Gabriel Davidou, autore della Fontana del Drago in place Saint-Michel e di varie altre opere disseminate per le vie di Parigi.

 

Mi addentro per i boscosi sentieri del parco con un leggero brivido dentro le ossa: non esagero, la sensazione che si ha nell’attraversare le Buttes Chaumont è quella di un abbandono a un trascinante magnetismo. Ignoro i pochi sconosciuti che m’incrociano facendo i loro esercizi di jogging, streching e tai chi per lasciarmi irretire totalmente dalla ricchezza della fauna che popola gli alberi e i prati verdissimi: cornacchie, passeri, piccioli, colombi, merli, fringuelli, ma soprattutto un numero impressionante di oche, aironi, anatre adagiate ai margini dei bassi ruscelli. C’è chi sostiene di aver notato persino non pochi esemplari di martin pescatore.

Un avvertimento però è d’obbligo: tenetevi alla larga dalle Buttes dopo una certa ora. Si sussurra che il mitico tempio della Sibilla in vetta ai suoi 173 gradini costituisca il centro esatto di un pentagono esoterico fortemente energetico, e che la notte richiami sette di iniziati, di fanatici, di devoti ai culti lunari dell’oscurità. Potrebbe non rivelarsi piacevole verificare di persona l’esattezza di una simile superstizione. Per di più, l’interno dell’antica cava – attualmente chiusa all’accesso dei cittadini – parrebbe custodire l’enorme sala alla quale, sempre secondo leggenda, avrebbero modo di accedere i devoti dell’antica religione sibillina.

 

Non bastano le colorate aiuole di lillà mosse dal vento, né l’eloquenza dei platani orientali, dello Spino di Giuda, del cedro del Libano, o dell’ammaliante Sophora che nel silenzio assonnato dell’inverno parigino stende i suoi grossi rami contorti fino a lambire le acque incantate del lago. La percezione di qualcosa d’inspiegabile rimane: questo gas sottile rappreso nell’aria, questa essenza incancellabile, velo persistente che ricopre un po’ tutte le cose. Ed è una sensazione che vi dispiacerà abbandonare una volta riconsegnati al vero inferno che è lo strombazzare del traffico metropolitano.

 

Luigi La Rosa 

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