Kenya: savane ricche di animali selvaggi, culture senza tempo, spiagge e barriere coralline dall’inviolata bellezza, foreste equatoriali e maestose montagne dalle cime innevate, posto adatto all’avventura, alla scoperta e al relax. Ma c’è molto di più oltre questo scenario da favola. C’è razzismo, c’è discriminazione verso gli occidentali, c’è un popolo che sembra quasi che non voglia crescere. Piera, sposata con un kenyota, nel 2011 ha lasciato l’Italia e il suo lavoro a tempo indeterminato, per trasferirsi in Kenya, dove, tra mille difficoltà, ha realizzato un ambizioso progetto: la costruzione di 7 lodge con bagno, piscina e ristorante, a Timboni, un paesino a due km da Watamu.
Piera raccontaci qualcosa di te..
Sono di Galbiate, in provincia di Lecco. La prima volta che sono stata in Kenya è stato nel 2007, su suggerimento di mio fratello, che ci era già stato in diverse occasioni. Durante il mio primo viaggio conobbi Jumaa, colui che poi è diventato mio marito. Tornata in Italia, continuammo a sentirci quasi tutti i giorni, fino al momento in cui decisi di ritornare per la seconda volta in Kenya. Quello fu un viaggio decisivo, il viaggio che consacrò il nostro amore, infatti ci sposammo senza dire niente a nessuno e con due testimoni che neanche conoscevamo!
Appena sposati avete deciso di rientrare in Italia…
Sì, siamo rientrati subito dopo esserci sposati, anche perché io in Italia lavoravo in un’azienda, ormai da 5 anni, come impiegata commerciale. Mio marito invece, dopo 3 mesi dal nostro arrivo, fu assunto in una ditta del mio paese, come operaio metalmeccanico con contratto a termine.
E poi cosa è successo?
E’ successo che ad un certo punto non riuscivo più a sentirmi gratificata dal mio lavoro, non tanto a livello economico, quanto a livello morale. Il lavoro mi piaceva, mi appagava, davo tutta me stessa in quello che svolgevo, ma il riscontro non era quello che mi aspettavo. In 10 anni passati in quell’azienda, non mi era mai stata data la possibilità di crescere professionalmente e questo mi pesava tantissimo. Così a maggio del 2011, decisi di dare le dimissioni. Ovviamente fui presa per pazza. Lasciare un posto fisso, in un’azienda con una solidità economica non indifferente, poteva sembrare un gesto scellerato per gli altri….ma non per me!
Quali erano i tuoi propositi?
Avevo il desiderio di realizzare qualcosa a livello professionale, creando un’attività solo mia. Nel frattempo anche i rapporti con mio marito si erano deteriorati. Purtroppo le diverse culture e il modo diverso di affrontare la vita, nel tempo sono venuti fuori, generando problematiche che hanno rovinato il rapporto di coppia. Così, per cercare di salvare il salvabile, presi la drastica decisione di trasferirmi definitivamente in Kenya, da un lato per recuperare il rapporto coniugale, dall’altro per realizzare qualcosa che in Italia allo stesso costo non avrei mai potuto fare e cioè la costruzione di 7 lodge con bagno, piscina e ristorante, a Timboni, un paesino a due km da Watamu.
Un progetto ambizioso!
Beh..sì abbastanza. L’intento è quello di affittare le camere con i vari servizi, da bed & breakfast a pensione completa, di organizzare escursioni e safari con le varie agenzie del luogo, per soddisfare ogni richiesta dei nostri futuri clienti. Speriamo soprattutto, di lavorare principalmente con i kenioti e poi con i muzungu. Da noi si dice che “chi non risica non rosica” ed io ho voluto “risicare”.
Tornando al 6 settembre, siete arrivati in Kenya e poi?
Appena arrivati, io e mio marito ci mettemmo alla ricerca del terreno giusto per la realizzazione del progetto, ma non fu per niente facile, perché purtroppo il fatto di avere la pelle bianca mi penalizzava. Sì, proprio così, appena mi vedevano, i prezzi triplicavano! Così alla fine, dopo un mese e mezzo di chilometri e di polvere mangiata su e giù, a destra e a sinistra tra Malindi e Watamu, chiedemmo alla famiglia di mio marito di venderci un terreno, ovviamente ad un prezzo equo. E così fu! Acquistammo un terreno di 4.000mq e finalmente, il 18 ottobre, iniziammo con la costruzione dei lodge. Passavo 7 giorni su 7 in cantiere per seguire i lavori, mentre mio marito si occupava dell’acquisto dei materiali. A inizio novembre mio figlio, che nel frattempo aveva perso il lavoro in Italia, decise di raggiungermi anche lui, per darmi una mano morale oltre che fisica.
Mi incuriosisce quello che hai affermato prima e cioè che i prezzi triplicavano di fronte ad una persona “bianca”…
Potrà sembrare assurdo ma è la pura verità. Quando mio marito contattava i venditori, telefonicamente stabiliva il prezzo del terreno. Appena arrivavamo sul posto e si rendevano conto che l’acquirente ero io e non mio marito, cambiavano le carte in tavola e i prezzi triplicavano.
Da quel che mi dici, i bianchi non sono visti bene da quelle parti….
Certo! Sono loro i primi a fare discriminazioni, ti faccio qualche esempio: se prendi un qualsiasi tipo di taxi pubblico, le tariffe raddoppiano e devi stare sempre a discutere sul prezzo; vengono a farti i preventivi per i lavori e i prezzi sono nettamente diversi da quelli che farebbero ad un keniota; vai negli uffici per una semplice licenza (cosa che ti spetta di diritto, indipendentemente dal colore della pelle) e ti chiedono in inglese “something nice for me?” ( a mio marito lo dicevano in swahili). Io per acquistare del materiale al giusto prezzo, ho dovuto girare tanto, ma veramente tanto!
Perché questa discriminazione?
Mi chiedi il perché di questa discriminazione? Perché siamo bianchi e quindi tutti pensano che siamo ricchi… Qui siamo paragonati a delle mucche da mungere. Bianco uguale soldi. Lo pensava anche mio marito, ovviamente non di me, perché io a lui avevo detto la verità. Jumaa aveva lavorato negli alberghi a stretto contatto con i turisti italiani che raccontavano di tutto e di più, che offrivano da bere a tutti e che regalavano grosse mance. Quando poi è venuto in Italia, si è reso conto della dura realtà e soprattutto si è reso conto che non siamo tutti i Briatore della situazione…
Quali sono le ulteriori difficoltà che hai incontrato nella realizzazione del tuo progetto?
Oltre ad aver lottato per le cose che ho citato prima, posso assicurarti che lavorare con loro è stata veramente dura! Non amano essere comandati da una donna, per giunta bianca e poi sono terribilmente lenti nel fare le cose, un po’ per il caldo e un po’per la loro mole, ma la cosa che più fa rabbia è che, quando cerchi di insegnare loro un modo diverso di lavorare per fare meno fatica, cosa fanno? Ti dicono “sì, sì, hai ragione”, ma continuano a comportarsi come sempre. Un’altra cosa che mi fa rabbia è che non ragionano prima di fare qualunque cosa e nel momento in cui li riprendi, annuiscono e chiedono scusa, sembra quasi che ti prendano in giro. Il problema è che io delle loro scuse non so che farmene. Sono sempre stata abituata a pensare prima di fare qualunque cosa e a chiedere anche dieci volte se non sono sicura di quello che faccio. Ma a loro, che tu perda i soldi o tempo non interessa, tanto tu sei muzungu/europea e non hai nessun tipo di problema. Per cui mi sono ritrovata a stare sul cantiere tutti i giorni, a vigilare come un soldato su quello che facevano, anche se nonostante tutto riuscivano sempre a combinarne una. Non c’è una cosa fatta come Dio comanda! Tutti mi dicono “sei in Africa cosa pretendi??”. Io questo non lo accetto, perché se ragionano così non impareranno mai e rimarranno sempre indietro ed è un vero peccato, perché l’Africa è un Paese con grandi potenzialità.
Oltre questo, hai avuto anche problemi burocratici?
Più che problemi burocratici, abbiamo avuto problemi per il rilascio del permesso di lavoro. Qui per ottenere dei documenti, sei costretto a dare mazzette sottobanco per velocizzare la pratica o semplicemente perché non vogliono scomodarsi per venire a controllare sul posto se è tutto ok. Purtroppo, ad oggi, non ho ancora ricevuto il documento che attesta che io sono la proprietaria del terreno e per i vari passaggi burocratici, mi toccherà aspettare ancora 7 mesi…. qui le tempistiche sono pole pole/piano piano.
A che punto sei ora con il progetto?
Finalmente abbiamo terminato, ora manca solo la documentazione che mi dia la possibilità di lavorare qui. Come accennato prima, qui le richieste per ottenere il permesso di lavoro sono a dir poco assurde!
Il fatto che tu sia sposata con una persona del posto, non ti ha agevolata in tal senso?
Lo speravo…. Anche perché quando mio marito è venuto in Italia, il fatto di essere sposato con un’italiana lo ha agevolato parecchio. Qui però non è così. Mi hanno dato un permesso di 2 anni e basta. Ho chiesto la carta d’identità e dopo un anno dalla richiesta, la sto ancora aspettando. Per il pin number invece, l’equivalente del nostro codice fiscale che in Italia è gratuito, ho dovuto pagare circa 100 euro (naturalmente sotto banco e senza ricevuta) perché non avevo ancora la carta d’identità keniota. Purtroppo ho dovuto necessariamente pagare, perché se mi fossi rifiutata di farlo, non avrei avuto il pin number, senza del quale non avrei potuto acquistare nulla, dal terreno alla macchina. Nulla! Finalmente ora abbiamo terminato, ma come già detto prima, siamo in attesa dei documenti per poter lavorare e qui nasce il bello, tutto gira attorno a mazzette! Il fatto che tu investa, che comunque porti qui del denaro, che offri posti di lavoro, a loro non basta. Qualsiasi cosa tu debba fare, sei costretta a pagare sotto banco. Pensa che ora, per ottenere il permesso di lavoro, che costa 2.000 euro per 2 anni, sono costretta a pagarne 1.000 per averlo nel giro di un mese, altrimenti può passare anche un anno prima di averlo, senza che io possa lavorare….Io però non lo faccio! Perché oltre ad essere contraria a questo tipo di cose, non lo trovo assolutamente giusto. Così sto cercando una soluzione che non abbia costi aggiuntivi, per poter iniziare a lavorare e cercare di far rientrare qualcosa di quello che ho speso fino ad oggi, così da cominciare a pagare il debito che mi sono messa sulle spalle per realizzare i lodge.
In tutto questo, com’è il rapporto con la gente locale?
Con i miei vicini, che vivono nelle capanne di fango, c’è rispetto e cordialità. Quando esco di casa i bambini mi fanno sempre una festa come se mi vedessero per la prima volta. Con il resto della gente non ho un rapporto confidenziale. Mantengo un rapporto di educazione e pretendo che anche loro debbano farlo con me. Purtroppo ho saputo di gente italiana che dava troppo confidenza e che poi si è ritrovata a vivere situazioni spiacevoli, oltre ad essere invischiata in chiacchiericci inutili. A me queste cose non piacciono, soprattutto perché ho un’attività da portare avanti e non voglio avere alcun tipo di problema.
Ti sei mai chiesta il perché di questa discriminazione nei confronti di noi occidentali?
Non saprei…potrei fare solo delle considerazioni. Forse perché a loro volta sono stati trattati male da noi bianchi. Pensa che, essendo stata una colonia inglese a suo tempo, in Kenya oggi ci sono molti inglesi che, tuttora, non sono amati per la loro freddezza e per il distacco con cui trattano la popolazione locale; per giunta, noi italiani non siamo ben visti neanche dagli inglesi del posto, perché ci accusano di aver rovinato il Paese, di aver esportato “l’uso delle mazzette”, per avere tutto e subito! Ti racconto quest’episodio, così hai un’idea di come si vive qui. Il 3 settembre ero stata convocata ad una riunione del comitato italiano dove ci sarebbe stato anche il console onorario di Malindi Macri, per discutere di un fatto avvenuto in paese. Due impiegati comunali del posto, si sono presentati nelle case degli italiani residenti qui, per riscuotere soldi di una tassa inesistente. Fortunatamente alcuni di loro non hanno abboccato e si sono rifiutati di pagare, chiedendo anche il rilascio di un verbale. Successivamente hanno portato il verbale dall’avvocato, il quale recatosi in tribunale, si è accorto che non esisteva alcuna legge a riguardo! Con questo voglio farti capire che qui, noi italiani, siamo i primi a subire le truffe, un po’ per il fatto di mettere velocemente le mani al portafoglio, un po’ per il fatto di non voler avere alcun problema con la giustizia…
Come reagisci di fronte a questo loro modo di fare?
A volte mantengo la calma, a volte invece alzo la voce e sbotto! Trovo assurdo questo comportamento nei nostri confronti, perché alla fin fine noi portiamo soldi, diamo lavoro e paghiamo le tasse, forse più di loro.
Ci sono stati dei momenti in cui avresti voluto mollare tutto e tornare in Italia?
Sì e più di una volta.
Chi e cosa ti ha aiutato a superarli?
Quello che ho realizzato qui, i miei sacrifici, il dover lottare ogni giorno con questa gente, il seguire giorno dopo giorno la costruzione sotto il sole, aiutando anche manualmente gli operai, perché mi dava fastidio stare a guardare, anche se questo mi è costato caro!
Perché?
Perché mentre ero al lavoro, sono arrivati due ufficiali dell’immigrazione (un operaio aveva fatto una soffiata) e ho dovuto pagare una multa sotto banco di €1.000, per non pagarne €10.000 in tribunale. Avevo anche cercato di chiamare l’avvocato, ma in quel periodo era in vacanza. In quel momento sono stata presa dal panico, così ho deciso di pagare i 1.000 euro, ma se dovesse capitarmi ora, la mia reazione sarebbe diversa, a costo di finire anche in prigione! Questo lo devo per il debito che ho fatto per realizzare questo sogno, per le persone che hanno creduto in questo mio progetto e che mi hanno sostenuto moralmente, per il mio futuro e per quello di mio figlio. Concludo con il dire che al principio, pensavo che questo fosse un Paese diverso, in cui vivere una vita molto più semplice sotto tutti i punti di vista, ma vivendoci ho capito che non è così. Ma amo quello che ho realizzato, ho lottato giorno per giorno per arrivare dove sono arrivata e ora. Il mio desiderio è di poter lavorare e dare il meglio di me e a tutte le persone che verranno qui, per farle sentire a proprio agio e per consigliarle al meglio.
Grazie Piera per quest’intervista sincera e realistica …
A cura di Nicole Cascione