Senza tracce, verso l’unione

 

Scruti il mare, leggi il vento e apri la vela. La barca inizia a scivolare sull’acqua. Sembra che voli. Il canale Beagle è di una calma surreale, sembra un lago. Il timoniere scruta il mare e cerca con lo sguardo anche le più piccole increspature dell’acqua, delle porzioni di mare che possono dargli una spinta in più. La barca naviga silenziosa. Un leone marino nuota in superficie a pochi metri da noi e non è per nulla spaventato. È come se fossimo autorizzati ad essere qui. Ci muoviamo sull’acqua senza trucchi. I popoli nativi di queste terre costiere come gli Yamana, si muovevano per il canale Beagle con una canoa. Adoperavano solo la propria forza fisica per fabbricare lo scafo e i muscoli delle braccia per remare. Noi ci serviamo del vento e usiamo le abilità che abbiamo acquisito per mare, a furia di navigare, per dirigere le vele. Siamo autorizzati ad essere qui, per il modo stesso in cui siamo qui. Per questo ci è consentito accedere ad una serie di sensazioni a cui altrimenti non sapremmo presenziare. I suoni, le luci, i colori, il volo a pelo d’acqua di un Petrel, i viaggi interminabili a mezz’altezza dei cormorani, il volo alto dei gabbiani antartici. Ci assoggettiamo al vento, siamo alla mercé delle correnti, rispettiamo i limiti del nostro corpo fisico ed emotivo. Siamo qui, ma non siamo qui. Passiamo senza lasciare traccia, o almeno la stessa traccia che lascerebbe un’orca in termini di massa d’acqua spostata. Non alteriamo l’equilibrio, siamo parte di quanto ci circonda e decidiamo di adottare le medesime leggi. Siamo in “unione”.

 

 

I suoi passi pesanti e sicuri rimbombano sulla mia schiena. È forte, massiccio e al tempo stesso agile. A tratti si lancia al trotto e se non mi tengo potrei perdere l’equilibrio. Il vento gli carezza la criniera. Il mio cavallo si chiama Erminio. Siamo partiti dall’estancia Lago Roca, a pochi chilometri dal ghiacciaio Perito Moreno. Siamo in Argentina, in Patagonia, cavalcando in pieno Parco Nazionale Los Glaciares. Siamo in una sezione del parco in cui non ci sono sentieri per turisti, ne per viaggiatori, ne per camminatori. Qui non ci viene nessuno perché c’è solo la Patagonia. Terra, pochi arbusti, animali in libertà, qualche corso d’acqua pura e tanto vento. Qui c’è “Terra nativa” e chi vuole andare per queste terre, deve farlo “senza aiuti”. Non ci sono strade o caffetterie, nessuna certezza dietro cui nascondersi quando il vento ruggisce. Se vuoi andare per questa “Terra”, devi farlo come chi viveva qui un tempo. L’unico aiuto concesso viene da un mezzo di trasporto e di conoscenza che esiste “in natura”: il cavallo.

 

Sei in ascolto, nessun rumore che non sia “naturalmente” prodotto da questo ambiente: i passi del cavallo sulla steppa, il canto degli uccelli, il battito d’ali delle aquile, il fruscio di una lepre patagonica che rapida si nasconde ai nostri occhi, un armadillo che incrocia il percorso del cavallo, il vento che soffiando forte benedice il tuo cammino, gli arbusti che pettinati dal vento gli offrono la loro fibra più resistente. Siamo qui, ma non siamo qui. Passiamo senza lasciare traccia, o almeno la stessa traccia che lascerebbe il cavallo passando da solo per queste Terre. Non alteriamo l’equilibrio, siamo parte di quanto ci circonda e decidiamo di assoggettarci alle medesime leggi, di adottare le medesime regole di tutti gli altri abitanti di questa Terra selvaggia. Siamo in “unione”.

 

 

Spingo sui pedali. La ruota della bicicletta avanza lenta sul cammino fatto di terra e pietre. Nell’aria il profumo dei fiori, il canto stridulo dei colibrì tanto rapido quanto il loro battito d’ali, le pietre che scricchiolano sotto il battistrada della bici, acqua che scivola sui sassi di un ruscello e il fogliame fitto della vegetazione che vibra sotto i colpi del vento. La mia presenza in questa Terra, produce il minor impatto possibile. Siamo qui, ma non siamo qui. Passiamo senza lasciare traccia, o almeno la sola impronta di una ruota, la traccia che lascerebbe qualunque altro essere vivente “naturalmente non motorizzato” passando per queste Terre. Non alteriamo l’equilibrio, siamo parte di quanto ci circonda e decidiamo di assoggettarci alle medesime leggi, di adottare le medesime regole di tutti gli altri abitanti di questa Terra selvaggia. Siamo in “unione”.

 

Crediamo di essere una specie “evoluta”, ma qualunque azione compiamo in una nostra giornata tipo è assistita da qualche ultimo ritrovato della tecnologia che quasi sempre produce “esternalità negative” per la vita in generale. Per inciso, con esternalità negative intendiamo qualunque effetto collaterale oggettivamente negativo derivante dall’impiego di una data tecnologia (es: l’automobile produce inquinamento; l’agricoltura industriale adottando pesiticidi/erbicidi è cancerogena, ecc). Il senso della tecnologia è nel supporto che da essa possiamo trarre per la nostra evoluzione e secondo le accreditate teoria Darwiniane, l’evoluzione è di quelli che meglio si adattano all’ambiente in cui vivono. Quindi, la tecnologia ci serve ad adattarci meglio in “questa vita” su “questo pianeta”. Osservando la storia, è certamente vero che c’è stata un’epoca in cui il nostro ingegno ha prodotto tecnologie in grado di farci meglio adattare e quindi evolvere (poiché la loro utilità/beneficio superava lo svantaggio (o effetto collaterale) che esse producevano sotto forma di costo/esternalità per il singolo e per la società. Ma oggi non è più così. I mercati sono maturi, i bisogni soddisfatti e le opportunità ormai saturate. Le tecnologie di base sono ormai applicate nella vita di tutti i giorni, eppure continuano a fiorire infinte nuove tecnologie “incrementali” che dovrebbero farci adattare sempre meglio alla nostra vita su questo pianeta, ma che invece, al contrario ci appesantiscono. Esiste un punto in cui la relazione proporzionale crescente che di norma esiste tra tecnologia ed evoluzione, s’inverte, e ad ogni ulteriore avanzamento nelle tecnologie, involviamo. Questo accade perché il valore aggiunto/beneficio dell’ennesima tecnologia è decisamente inferiore dello svantaggio (o effetto collaterale) che queste producono.

 

 

Abbiamo perso di vista il punto di partenza: il nostro adattamento a questa vita in questo pianeta, il cammino evolutivo della nostra specie. Abbiamo preferito allontanarci dal sentiero e impantanarci nella zona grigia della speculazione e dell’apparente “miglioramento delle condizioni di vita”. Forse adesso qualcuno inizia a ricordare il punto di partenza. Sempre più gente inizia a rendersi conto che l’ennesimo restyling dello stesso modello d’auto, l’ennesimo nuovo orologio, l’ennesimo nuovo pacchetto di biscotti introdotto sul mercato e l‘ennesimo modello di treno alta velocità, forse non stanno migliorando la nostra vita su questo pianeta perchè si portano dietro come conseguenze l’inquinamento dell’aria, delle falde acquifere, dei fiumi e dei mari, la riduzione dei posti di lavoro, l’artificialità, la finzione, l’aumento di tumori, disturbi della personalità, malesseri e squilibri in generale, alienazione relazionale, depressioni, ecc.

 

Potremmo osservare il modo in cui vivono specie infinitamente più sagge ed evolute di noi, fosse altro perché esistendo da milioni di anni prima di noi, hanno potuto perfezionare il proprio “adattarsi” alla vita sulla Terra…Sto parlando dei minerali, dei vegetali e degli animali, eppure, non le prendiamo minimamente in considerazione. L’universo ha 14 miliardi di anni, il pianeta Terra 5 miliardi di anni (quindi il regno minerale ha 5 miliardi di anni), i vegetali sono comparsi 3,5 miliardi di anni fa, i primi organismi viventi (da cui discendono gli animali e poi noi) sono comparsi 1,5 miliardi di anni fa. L’uomo, nella sua versione di Homo Erectus, esiste da 200 mila anni. Insomma, se il Pianeta Terra avesse 1 anno di vita, la specie umana è arrivata nell’ultimo secondo di questo anno. I popoli “nativi” della Terra non hanno mai perso di vista questo dettaglio e per questo mantenevano “aperta” la relazione con le montagne, con le piante, con gli animali e soprattutto con gli altri esseri umani. Sapevano che l’unico atteggiamento saggio da mantenere nei confronti della vita e dell’ecosistema in cui vivevano era l’umiltà e l’ascolto.

 

Si tratta di “unione”. Abbiamo detto che “evoluzione” implica “adattamento”, ma adattamento a cosa? Naturalmente all’ecosistema in cui viviamo, vale a dire alle forme di vita minerali, vegetali e animali che già esistevano prima di noi su questo pianeta. Quindi, l’uso stesso della parola “adattamento” vuol dire dar per scontato che dovremmo essere il più possibile in contatto con chi vogliamo adattarci. Dovremmo essere in “unione”. Il punto massimo di unione si è raggiunto con il modo di vivere dei popoli nativi del pianeta, poi l’avvento della rivoluzione industriale con l’espansione tecnologica ci ha portato a vivere in “separazione”. Può sembrare un po’ forte quello che sto per dire e so che molti potrebbero avere un’idea diversa. Non tutta l’espansione tecnologica è positiva. Se è vero quanto ho detto sopra, c’è un punto oltre il quale ulteriore tecnologia danneggia la nostra evoluzione, il nostro adattamento, perché ci “separa”, ci allontana dall’oggetto dell’adattamento, ci allontana dall’ecosistema. A mio modo di vedere, c’è stato un punto fino al quale l’ingegno dell’uomo ha creato espansione tecnologica finalizzata ad aumentare l’unione con l’ecosistema favorendo quindi le condizioni per l’adattamento e l’evoluzione. Questo punto è stato raggiunto con le tecnologie dei popoli nativi, cosiddetti indigeni (oggettistica per la caccia, per il raccolto, per cucinare ecc), che nella loro saggezza e connessione non avevano mai perso di vista il senso della vita. Tutto quello che è venuto dopo, dall’uomo moderno, ci ha costantemente allontanato dal sentiero evolutivo, dall’oggetto dell’adattamento e dall’adattamento stesso.

 

Questa riflessione, aiuta anche a chiarire perché tanta gente oggi mette sempre più spesso in discussione la propria vita ed è attratta dalla famosa frase ad effetto “Mollo tutto”.

 

Qualcosa è nascosto. Vai a cercarlo. Cerca al di là delle vette.

Qualcosa è stato perso al di là delle vette. È stato perso e ti aspetta. Vai!” Tiziano Terzani.

 

È la nostra “natura evolutiva” che ribolle dentro di noi e ci spinge a tornare sul cammino dell’evoluzione interrotto dalla maggior parte dell’umanità 500 anni fa e oltre. Ciascuno poi declina a suo modo questa sensazioni. C’è chi trova difficile scardinare le regole del sistema in cui ha vissuto per tanti anni e chi invece decide di fare piazza pulita. Ci sarà quindi chi aprirà un chiringuito su una bella spiaggia e chi intraprende una vita nomade in bicicletta in totale immersione con la natura. Non c’è differenza ed ogni modo è il miglior modo per se. L’importante è essere tornati sul sentiero evolutivo che era stato tracciato dai nostri predecessori. Buon cammino!

 

Pierluigi e Melissa

In Lak’ech – Tu sei un altro me

www.theevolutionarychange.com