Internazionalizzare la propria impresa: alcuni consigli da un esperto in fiscalità internazionale

 

In un periodo di crisi economica come quello attuale, internazionalizzare la propria azienda diventa un passo essenziale per sviluppare e rafforzare la propria presenza sul mercato, diventando in tal modo competitivi nel proprio paese d’origine e soprattutto nel mercato estero. Come afferma il dott. Armando Grigolon, commercialista e Senior Partner di Cortellazzo & Soatto, esperto di fiscalità internazionale: “Oggi non è più un problema di convenienza, ma di sopravvivenza. Internazionalizzare la propria impresa potrebbe significare ricercare all’estero fonti di approvvigionamento o modalità di produzione più competitive per poter, se non accrescere, almeno mantenere le quote acquisite”.

 

Dottor Grigolon, cosa vuol dire oggi internazionalizzare la propria impresa?

 

Vuol dire adottare le linee strategiche ed assumere le decisioni operative che consentano all’impresa di stare sul mercato. Anche se il mercato di riferimento dell’impresa fosse solo quello nazionale, ipotesi sempre meno realistica, internazionalizzazione potrebbe significare ricercare all’estero fonti di approvvigionamento o modalità di produzione più competitive per poter, se non accrescere, almeno mantenere le quote acquisite. Il più delle volte però internazionalizzazione significa ricerca di nuovi mercati in cui vendere i beni o servizi che l’azienda produce in uno scenario di contrazione o di accentuazione della concorrenza nel mercato interno. Questo implica confrontarsi con i mercati internazionali anche in tema di qualità del prodotto, gamma produttiva, modelli distributivi, logistica, capacità di comunicazione. Un insieme di processi attraverso i quali ricercare non solo maggiore competitività, ma anche e soprattutto capacità di ascolto, di dialogo e di relazione con mercati che si caratterizzano per diversità di cultura, lingua, legislazione, tradizioni, modalità di consumo.

 

Per quale motivo e quanto conviene alle imprese internazionalizzarsi?

 

Oggi non è più un problema di convenienza, ma di sopravvivenza. Se fosse solo un’opzione legata alla convenienza il tema sarebbe assai meno urgente di quanto in realtà non lo sia. Oggi ci si confronta sempre più con competitors internazionali che entrano e si rafforzano sul nostro mercato che è un mercato aperto e di grande interesse per gli operatori internazionali, spesso potendo contare su dimensioni e capitalizzazione superiori a quelle delle nostre imprese e, talvolta, anche su costi di produzione inferiori, quantomeno con riferimento a certe fasi del ciclo produttivo. Per reggere la concorrenza e mantenere ritmi di sviluppo che consentano di restare sul mercato occorre quindi allargare la presenza dell’azienda su altri mercati, diventare dei players globali, attaccare i concorrenti sui loro mercati, come essi fanno sul nostro. L’internazionalizzazione quindi non è più un optional, ma un must e alla fine certamente è anche conveniente in quanto aumenta il valore e l’appetibilità dell’azienda e, normalmente, anche la sua redditività.

 

 

In un periodo di grave crisi economica, come quello attuale, il processo di internazionalizzazione conviene anche alle piccole-medie imprese?

 

E’ proprio su questa fascia dimensionale che il problema è più drammatico, nel senso che proprio per le PMI sta diventando un problema di sopravvivenza. Al di là della retorica, la piccola dimensione è sempre più spesso sinonimo di dimensione insufficiente, carenza di capitalizzazione, impossibilità di accesso a risorse e fattori produttivi qualificati, insufficienza di economie di scala, impossibilità di affrontare gli investimenti richiesti non solo dalla scelta di internazionalizzazione, ma a volte anche dalla necessità di mantenere la competitività nella progettazione, nella realizzazione e nella distribuzione del prodotto o servizio.

 

Quali sono i passi che un’impresa deve compiere per varcare i confini nazionali senza incorrere in errori?

 

Acquisire una conoscenza approfondita dei mercati di sbocco, di approvvigionamento o di produzione ai quali l’impresa intende aprirsi, verificare le criticità dei propri prodotti e della loro rispondenza a quei mercati, verificare la disponibilità di risorse umane adeguate, dipendenti, collaboratori e consulenti, nei Paesi in cui si intende operare ma anche in sede, mettere a punto un business plan analitico, prudente e fattibile. E’ comunque difficile riassumere in poche righe i passi necessari, le variabili sono molteplici e vanno dall’analisi della concorrenza e del mercato, agli aspetti di comunicazione, alla valutazione del modello distributivo più appropriato. Il progetto di internazionalizzazione è un abito di fine sartoria, non un prodotto di serie.

 

Da un punto di vista prettamente fiscale, quanto è conveniente internazionalizzare la propria impresa?

 

Non è la fiscalità la determinante delle scelte di internazionalizzazione, anche se considerazioni di ordine fiscale possono condizionare le scelte di localizzazione ed i modelli organizzativi, produttivi e distributivi. Le opportunità fiscali sono spesso legate alla presenza di legislazioni più favorevoli di altre all’investimento o con più ridotti livelli di tassazione. Di volta in volta si costruiscono i percorsi più adeguati a conseguire gli eventuali legittimi vantaggi o ad evitare gli svantaggi delle doppie imposizioni. Occorre sempre prestare attenzione che i benefici fiscali che si possono cogliere derivino da scelte aventi un contenuto economico effettivo e non da scelte la cui unica finalità sia il risparmio fiscale. Se così fosse occorre considerare che oramai tutte le legislazioni sono attrezzate nel combattere i danni che scelte così compiute possono arrecare alla fiscalità dei Paesi coinvolti, siano essi quelli della fonte del reddito o della residenza fiscale del contribuente.

 

Da un punto di vista burocratico, invece, cosa può dirci dei tempi e dei costi?

 

Non credo che gli aspetti burocratici possano rappresentare dei vincoli insormontabili; noi italiani da questo punto di vista siamo abituati talmente male nel nostro Paese che sotto questo profilo possiamo dirci sufficientemente vaccinati. Se escludiamo aspetti o comportamenti di tipo protezionistico, che talvolta rappresentano il vero motivo degli intoppi burocratici, questo è un fattore che si supera. Le vere criticità sui tempi sono legate ai gap da colmare con riferimento ai diversi aspetti sopra enunciati con riferimento all’adeguatezza dei prodotti e della gamma, alle eventuali criticità di ordine finanziario, per le quali potrebbe essere necessario ad esempio aprire il capitale all’ingresso di nuovi partners, o manageriale, per la difficoltà di attrarre risorse umane adeguatamente preparate.

 

Ci sono dei Paesi dove è più opportuno ed altri dove lo è meno?

 

Certamente, ma la risposta si può dare solamente comprendendo quale sia il motivo per cui si valuta l’opzione di internazionalizzazione, commerciale, di approvvigionamento o di produzione. Occorre poi conoscere il settore di attività, la potenziale clientela ed una serie di altre variabili.

 

Quali sono i settori che ottengono di più dall’internazionalizzazione?

 

E’ difficile pensare che vi siano dei settori in astratto più svantaggiati. Dall’alimentare, all’abbigliamento, dalla meccanica alle costruzioni, fino ai servizi di consulenza, le opportunità ci sono in pressoché tutti i settori. Spesso individuare svantaggi è una giustificazione rispetto a scelte sbagliate o, il più delle volte, a decisioni non assunte.

 

In base alla sua esperienza nel settore, quali consigli darebbe alle imprese italiane?

 

L’ostacolo che considero più serio e più difficilmente sormontabile è quello dimensionale. Ad esso è legata una serie di carenze e svantaggi competitivi, cui in parte ho già fatto cenno in precedenza, di ordine produttivo, finanziario e manageriale che spesso rendono impossibile affrontare un processo di internazionalizzazione. Occorre quindi rimuovere questo gap e le modalità vanno dall’aggregazione tra imprese attraverso acquisizioni e fusioni, fino agli strumenti di consorzio o di rete d’impresa. Personalmente credo di più alle aggregazioni ed alla creazione di aziende di dimensioni adeguate, in grado non solo di andare all’estero, ma soprattutto di restarci a lungo e competere ad armi pari con la concorrenza. Nelle aggregazioni spesso non mancano gli spazi per riuscire a dar vita ad un’azienda più grande e strutturata continuando a sentirsi parte determinante ed attiva dei percorsi e dei successi aziendali. Realisticamente poi occorre sempre considerare che le tendenze irreversibili del mercato difficilmente si contrastano. Al contrario, vanno capite per tempo per non perdere il valore accumulato in anni di lavoro.

 

Armando Grigolon, dottore commercialista è Senior Partner di

Cortellazzo & Soatto

Associazione Professionale di Dottori Commercialisti ed Avvocati

Padova, via Porciglia, 14

Tel. O49 8237311

e.mail: gr******@co****************.it

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