“Fuori dalla caverna, appunti di un viaggiatore romantico” di Alessio Trerotoli

 

È da poco uscito il libro "Fuori dalla caverna" di Alessio Trerotoli. Siccome non nasce sotto l’ala bonaria e promozionale di un grande editore probabilmente non se ne sentirà parlare come sarebbe giusto. Speriamo, noi di Voglio vivere così, di dargli quella visibilità che si merita. Un libro che si potrebbe definire come il classico diario di viaggio se non si avesse immediatamente la sensazione di trovarsi tra le mani qualcosa di diverso. Un libro di formazione, un promemoria intimo, il disegno di una geografia molto personale in cui tanti paesi sembrano diventare un unico "paese dell’anima". E già il titolo sembra suggerire qualcosa, con quel discreto richiamo alla caverna platonica, metafora di una fame di conoscenza a cui sempre si accompagna il viaggio.

 

Ma per Alessio la caverna sembra essere anche quella Roma, così amata, da vicino e da lontano, quella città che gli vive sottopelle sempre, motivo per scoprire altri posti ma motivo, anche, per dare un senso al ritorno. È bello questo libro, è bello perché non descrive solo immagini con una vivezza incredibile; è bello anche perché ci racconta cosa sia il tempo, il movimento, cosa significhi farsi domande, e smettere, proprio grazie al viaggio, di sentirsi al centro del mondo.

 

Leggete le pagine in cui Alessio descrive alcuni scorci di Parigi, il cielo grigio del Belgio, la sonnacchiosa campagna francese. E poi gustatevi le immagini dei sobborghi di Boston e della lentezza del Sud America. È un libro generoso quello di Alessio, questo mi viene da dire; un libro scritto come una fotografia. E, infatti Alessio conosce bene il linguaggio fotografico. Belle anche le foto presenti all’interno del testo, foto che sembrano fatte della stessa stoffa leggera di cui sono fatte le parole di questo libro.

 

Facciamo due chiacchiere con Alessio.

 

Intanto ti faccio una domanda forse scontata che mi viene sempre spontanea quando vedo foto come le tue: perché il bianco e nero?

 

Il bianco e nero è un po’ un omaggio ai grandi fotografi del passato, come Henri Cartier-Bresson o Robert Doisneau, che per me sono dei grandi modelli di riferimento. Inoltre quella in bianco e nero è una fotografia nostalgica, che si associa bene all’idea di passato. Sono una persona profondamente legata al passato, e forse è per questo che mi piace associare il bianco e nero ai miei viaggi, al ricordo che ho di essi.

 

 

La tua scrittura mi fa pensare alla fotografia: descrivi attimi senza addentrarti in pensieri troppo intimisti, rimani sulla superficie per essere ancora più profondo. È così o è solo una mia impressione.

 

È una chiave di lettura decisamente affascinante, amo l’idea che i miei appunti di viaggio possano essere fruiti come una lunga serie di fotografie. In realtà è uno stile di scrittura non voluto, ma che in un certo senso mi appartiene: quando scatto una fotografia cerco il più possibile di raccontare una storia con un’immagine. Al contrario quando scrivo mi è forse naturale “fotografare con la penna”, se così si può dire. Certamente il mio amore per la fotografia esercita una grande influenza in tutto ciò che scrivo (e non solo), e la tua osservazione a proposito è senza dubbio calzante.

 

Leggendo il tuo libro ho avuto la sensazione che tu abbia (come tutti forse) uno strano rapporto con il tempo. Descrivi i tuoi soggiorni, tipo quello a New York, come se fossero stati lunghissimi e poi si scopre che sono durati solo dieci giorni: è una conseguenza inevitabile del viaggiare? O ancora una volta ha a che fare con la fotografia, in cui il tempo si dilata e si concentra nello stesso fotogramma?

 

Quello con il tempo per me è un rapporto di amore e odio. Non è un caso che le mie più grandi passioni siano la fotografia e i viaggi: è come se la fotografia mi aiutasse a fermare il tempo, mentre i viaggi mi aiutano a dilatarlo. Il libro che ho scritto rappresenta, in un certo senso, una grande rincorsa nei confronti del tempo, che per troppi anni ha camminato più velocemente di me: quel viaggio a New York, breve ma intenso, è stato probabilmente una tappa fondamentale di questa rincorsa, mi ha spinto a non mollare, a continuare questo inseguimento. Soltanto alla fine del libro capiamo se questa rincorsa in giro per il mondo ha dato i suoi frutti.

 

Ad un certo punto dici che la parte del viaggio tra Francia e Olanda è stato un viaggio del cuore, mentre quello in Sud America è stato un viaggio degli occhi. Ma che differenza c’è? Che differenza c’è, soprattutto, per un fotografo.

 

Il viaggio in Europa è stato il mio primo viaggio da solo, dietro ad esso c’era un approccio più sentimentale e sicuramente più ingenuo rispetto ai viaggi successivi, e leggendo il libro penso che questa differenza si noti. In quel viaggio ho scattato molte fotografie, ma ancora non sapevo di essere un fotografo. A dire la verità non sapevo proprio chi o cosa fossi. Mi sono lasciato condurre soprattutto dai sentimenti, per questo l’ho definito il mio “viaggio del cuore”. Quello in Sudamerica al contrario l’ho affrontato con un approccio totalmente differente: avevo quasi tre anni di viaggi alle spalle, e oltre all’esperienza in sé cercavo comunque belle immagini da fotografare. C’era dunque un’idea di viaggio certamente romantica, ma ad ogni modo più razionale, più attenta. Ho usato di più gli occhi e meno il cuore, per così dire, anche se alla fine la mia indole sentimentale è uscita comunque fuori, visto che mi sono profondamente innamorato anche di quei luoghi.

 

Per avere informazioni su Alessio, la sua attività di fotografo e su dove e come trovare il suo libro, consultate il sito www.alessiotrerotoli.it

 

A cura di Geraldine Meyer