Vivere felici all’estero, il libro di Luisella Zappetto

 

Luisella Zappetto, giornalista professionista, ha collaborato con molte riviste e ha lavorato per la Cooperazione italiana allo Sviluppo/ministero degli Affari Esteri a Luanda (Angola). Grazie al lavoro del marito, dipendente di una multinazionale, Luisella ha vissuto al Cairo, dove è nato Federico, all’Aja, a Mosca e da circa due anni vive a Giacarta, dove lavora come giornalista freelance. Autrice del libro Vivere felici all’estero. Come trasformare una necessità in una grande opportunità. Tutto quello che occorre sapere per diventare cittadini globali”, Luisella accompagna chi legge in tutte le fasi del "ciclo dell’espatrio", preso in esame nei suoi aspetti organizzativi, pratici (la ricerca della casa; la scelta della scuola per i figli; il lavoro e le differenze culturali; le opportunità di lavoro per il partner che accompagna; la sicurezza) e, soprattutto, nelle implicazioni sulla vita privata e di relazione.

 

Luisella, come e perché è nata l’idea di questo libro?

 

Il nostro è un Paese con un’importante storia migratoria, iniziata dopo l’Unità d’Italia. La nuova emigrazione è molto diversa da quella che, in varie fasi, abbiamo conosciuto in passato. Eppure il tema dell’espatrio, che è oggetto di un approfondito interesse (attraverso studi, siti internet, survey, riviste e una vasta bibliografia che segnalo anche nel mio libro) nei Paesi anglofoni, in Italia è affrontato prevalentemente con toni allarmistici ("italiani in fuga", "fuga dei cervelli", ecc.) o romantico/arrabbiati ("mollo tutto e vado via"), ma scarsamente pragmatici – a volte fuorvianti – e sostanzialmente poco utili a chi, volendo o dovendo recarsi all’estero, desideri farsi un’idea realistica di ciò che questa esperienza potrebbe comportare. Vivere felici all’estero nasce anche dalla presa d’atto che essere italiani all’estero significa dover contare principalmente su se stessi. E dal fatto che la rapida globalizzazione impone al manager, come al ricercatore, al tecnico o al partner al seguito di sapersi rapportare efficacemente con la diversità culturale. L’intento di questo libro è anche quello di far sì che l’espatrio venga considerato come un fatto che attiene non esclusivamente alla vita del lavoratore in quanto tale, ma che coinvolge azienda-dipendente-famiglia/vita privata del dipendente. La chiave del successo di questa esperienza passa attraverso la conoscenza e la condivisione di tutti gli aspetti, le implicazioni e le difficoltà di ciascuno dei suoi protagonisti.

 

Vivere felici all’estero, come trasformare una necessità in un’opportunità”: perché questo titolo?

 

Questo libro non è un inno alla fuga. Non vuole essere un’esortazione al vivere fuori dall’Italia perché all’estero puoi essere felice, mentre in Italia no. Andare all’estero è una realtà dei nostri tempi, dovuta alla rapida globalizzazione. Un giovane che si affaccia al mondo del lavoro oggi non può prescindere dalla dimensione internazionale. La sfida, per tutti i protagonisti dell’espatrio, sta nel cogliere ciò che di buono questa scelta di vita può dare, senza però perdere le proprie radici, i propri legami con i luoghi e le persone dalle quali ci si allontana. Un rischio quest’ultimo che bisogna tenere presente nel momento in cui si valuta se partire o restare, anche quando si pensa di partire solo per due o tre anni.

 

 

Quali sono i protagonisti trattati nel tuo libro e quali le difficoltà che ognuno di essi deve imparare ad affrontare?

 

I GIOVANI Molti di coloro che partono hanno meno di 30 anni. Che cosa significa partire per un giovane? Significa che se hai un partner difficilmente ti seguirà, perché sarà impegnata/o nei suoi studi o all’esordio della sua vita lavorativa. Chi invece parte senza avere ancora trovato l’anima gemella, può darsi che all’inizio possa soffrire per una condizione di solitudine o magari trovi eccitante aprirsi a una vita sociale/sentimentale “senza frontiere”, ma alla lunga le differenze culturali potrebbero pesare.

 

LEGAME A DISTANZA E che cosa significa partire lasciando partner e figli in Italia? A distanza di anni che ne sarà di quei legami? Come si svilupperà il rapporto con loro non potendo condividere pienamente la vita di tutti i giorni, l’educazione dei figli: il gioco, la vita scolastica, ma anche i primi disagi dell’adolescenza. I partner imparano a vivere ciascuno per conto proprio.

 

COPPIE DUAL CAREER In che cosa si traduce la decisione di trasferirsi all’estero per una coppia in cui entrambi lavorano? Uno dei due dovrà sospendere o mettere da parte il proprio lavoro, la propria autonomia economica, ma anche una parte importante della propria identità. Fuori dall’UE, chi accompagna una persona che ha un visto di lavoro, difficilmente può lavorare. Nel 90% dei casi è la donna a ricoprire il ruolo di accompanying spouse. Il ruolo della donna che accompagna è molto sottostimato nella riuscita di questo progetto di vita. Eppure la letteratura delle risorse umane internazionali indica come una delle principali ragioni del fallimento di molte assegnazioni le difficoltà di adattamento che la donna e i figli incontrano quando si trasferiscono in un altro Paese. L’uomo ha il suo lavoro, il suo ruolo e si muove in un contesto (quello lavorativo) nel quale, per quanto gli sia nuovo, sa come muoversi e vede le sue capacità riconosciute. La donna deve reinventarsi una vita, interfacciandosi sin da subito con la realtà locale, dove la lingua e le differenze culturali all’inizio sono una barriera. Ovviamente, l’impatto o shock culturale ha una portata diversa da Paese a Paese, ma ovunque si sbarchi si dovranno fare i conti con questo. Nel mio libro parlo anche del caso in cui è l’uomo che accetta di accompagnare la donna che lavora all’estero. Questi uomini sono una minoranza (circa il 10%), ma in lenta crescita. Spesso incontrano difficoltà di adattamento anche maggiori rispetto alle donne, già abituate a considerare la loro vita come un “Lego” e a vivere in una condizione di disparità economica.

 

FIGLI Che cosa significa trasferirsi all’estero per i figli, quando sono piccoli e quando invece sono già adolescenti? Come prepararli ad affrontare un cambiamento così radicale della loro vita? Crescere lontani dai nonni e da tutte le importanti figure di riferimento che li circondano, oltre ai genitori (es. insegnanti, amici, ecc.). Per un adolescente può essere un vero trauma allontanarsi dai suoi interessi e amici avendo già una sua vita indipendente dai genitori. Anche per i figli il trasferimento comporta dunque sfide delicate: adattarsi a una nuova scuola e forse a un nuovo sistema scolastico; apprendere una nuova lingua; farsi dei nuovi amici. In certi Paesi può venire a mancare loro la libertà di cui godevano in Italia. E’ importante l’atteggiamento degli adulti, come loro vivono l’esperienza dell’espatrio inevitabilmente incide sul modo in cui i figli vivranno quell’esperienza. Bisogna dunque cercare di guardare le cose nel loro aspetto più positivo, trattenersi dalla tentazione (forte soprattutto agli inizi) di criticare tutto ciò che di nuovo ci circonda. Ci sono famiglie che vivono all’estero da anni, magari spostandosi ogni tre-quattro anni, i cui figli talvolta non hanno mai vissuto in Italia e stentano a parlare l’italiano, perché magari frequentano scuole internazionali o locali e non studiano la nostra lingua. Avverti quanto flebile sia il legame di questi bambini con l’Italia e la nostra cultura. Mi chiedo, quei bambini a quale Paese sentiranno di appartenere una volta diventati grandi? Noi genitori siamo cresciuti in Italia (fatta qualche eccezione) e poi abbiamo deciso di lasciare il nostro Paese, ma sappiamo dove affondano le nostre radici e questo è un aspetto importante nell’equilibrio della persona. I figli, invece, specialmente se piccoli, subiscono le decisioni dei grandi. Sta ai genitori fare in modo che l’esperienza all’estero li arricchisca, senza che ci rimettano la cultura, la lingua madre e le loro radici.

 

GENITORI ANZIANI Partire significa anche allontanarsi dai genitori, soprattutto se anziani e bisognosi di cure, fare questa scelta dunque può essere difficile sul piano pratico, perché magari bisogna delegare le loro cure a qualcun altro. Sul piano psicologico, ci si può sentire in colpa nei loro confronti. Anche ammesso che le condizioni di salute consentano loro di muoversi, non tutte le destinazioni possono offrire quelle garanzie di sicurezza sanitaria che permettono un trasferimento temporaneo. Magari anche il clima può non essere ideale per un anziano. Quando si va fuori dai Paesi dell’UE è consigliabile stipulare una polizza assicurativa che copra le spese mediche, l’assistenza e l’eventuale rimpatrio, ma più si va avanti con l’età, più sono gli acciacchi e maggiore è il premio assicurativo da pagare. Un computer e Skype in questo caso aiutano molto a rimanere in contatto.

 

AMICI La “pianta” dell’amicizia deve sempre essere innaffiata, a maggior ragione quando ci si allontana. Sta soprattutto a chi parte far sì che i rapporti non svaniscano con il passare del tempo. E soprattutto bisognerebbe evitare l’errore di considerare la propria vita all’estero come l’unica degna d’essere raccontata perché ritenuta più avventurosa e interessante rispetto a quella, già nota, di chi resta in Italia. Chi resta in Italia, dopo 10 minuti non ne può più di sentirsi raccontare storie di una vita che difficilmente immagina, tantomeno se questa vita si svolge in Paesi meglio organizzati del nostro e il confronto assume il tono di un giudizio.

 

COLLEGHI Con i colleghi di lavoro non è detto che si rimanga in contatto, questo vale sia per chi va all’estero a lavorare per un’azienda straniera/università, ecc. che per chi va in mobilità per conto dell’azienda madre. Ma è sempre meglio non chiudersi mai alcuna porta alle spalle.

 

Che riscontro sta ottenendo tra i lettori?

 

Il libro ha un buon riscontro soprattutto tra chi espatriato già lo è, perché si riconosce negli argomenti che vengono affrontati e nelle esperienze che racconta. Per chi ha vissuto in più Paesi, specialmente se culturalmente molto diversi dall’Italia, è facile ritrovarsi in un certo tipo di esperienze che rappresentano un filo conduttore. Come per esempio il rapporto con la gente del posto; l’importanza della comunicazione verbale e non; l’interazione culturale; le condizioni di vita e la sicurezza; la scuola dei figli; la solitudine e i problemi di coppia e familiari che potrebbero insorgere in seguito a questa scelta di vita; il lavoro in un ambiente multiculturale; la difficoltà e la frustrazione nel raccontare la propria esperienza a coloro che restano in Italia e il diradarsi, col tempo, dei legami con le persone e con l’Italia. Chi questa vita non la conosce direttamente, difficilmente riesce a farsene un’idea tramite buona parte dei media italiani, che spesso trattano l’argomento con titoli dai toni drammatici, parlando quasi esclusivamente di “cervelli in fuga” o calcando la mano sulla rabbia degli italiani che “mollano tutto e vanno via”. Sembrano contare poco o non esistere affatto le altre categorie di persone che vanno all’estero – in buona parte tecnici, personale di alto livello e manager che lavorano per aziende italiane e straniere; personale delle istituzioni e organizzazioni internazionali e Ong; le loro famiglie (in primo luogo il partner e i figli che accompagnano all’estero o che restano in Italia) – e le problematiche legate al vivere, crescere e lavorare all’estero. Eppure espatriare non significa solamente cambiare sede di lavoro. E non tocca solamente la vita del lavoratore in quanto tale, ma anche quella delle persone che della sua vita fanno parte: partner, figli, genitori, amici, colleghi, ecc.

 

 

Nel tuo libro, che potremmo quasi definire una guida, offri tantissimi preziosi consigli su cosa fare prima, durante e dopo il trasferimento all’estero. Come sei riuscita ad ottenere tutte le informazioni utili che hai poi inserito nel testo?

 

In questo libro ho unito la mia esperienza professionale di giornalista a quella di espatriata (prima partner a distanza, poi come partner al seguito, come lavoratrice, come mamma e come donna che a ogni destinazione smonta e rimonta la sua vita come un “Lego”). Scrivo di una realtà che ho vissuto e vivo in prima persona che, per interesse personale e professionale, ho approfondito documentandomi e confrontandomi con espatriati di tutte le nazionalità. Un mese fa mi trovavo a Singapore, a un’ora di volo da Jakarta, per una serie di incontri con donne espatriate come me, ciascuna leader nel suo campo. Come Jo Parfitt, una intraprendente signora inglese che dalla sua vita come accompanying spouse e dalla sua passione per la scrittura ha saputo creare un piccolo impero editoriale specializzato sui temi dell’espatrio. Arrivando all’American Women Club, la prima persona che ho incontrato è stata Diana Smit, olandese, prima ancora di scoprire che era l’autrice di un libro – Expat Teens Talk, che affronta le problematiche dei teenager che crescono cambiando più di un Paese, i c.d. third culture kids – da un primo scambio di battute, abbiamo scoperto di avere in comune il fatto di avere vissuto entrambe all’Aja, a Mosca, a Jakarta e di vivere questa esperienza di vita cercando di comprendere ciò che essa significa, per noi stesse, ma anche per chi ci circonda.

 

Secondo te, per quale motivo sta aumentando il numero degli emigranti italiani? E quale potrebbe essere una soluzione per l’Italia?

 

La crisi economica non interessa solo l’Italia, ma in Italia più che in altri Paesi dobbiamo fare i conti con nepotismi vari, farraginosità burocratiche, disservizi e mancanza di pragmatismo. Tutto ciò paralizza il Paese, manda sprecati tanti talenti che fanno “gola” in altri Paesi e fa sì che molti cerchino altrove la loro occasione. Ma sono comunque meno di quanto non si pensi e venga segnalato dai giornali con titoli allarmanti che evocano un esodo che non c’è. I giovani manifestano l’intenzione di lasciare l’Italia sino a che sono all’università, ma messi di fronte alla possibilità di partire frenano. Lo sanno bene molte aziende che hanno il problema di non trovare abbastanza giovani disposti a partire. Si parla quasi esclusivamente della crisi economica come il motore di questa nuova emigrazione italiana. In realtà, altri sono i fattori che spingono a partire, per esempio il fattore socio-culturale. In Italia, poi, l’allontanamento dalla famiglia è ancora visto come un qualcosa di negativo. Mentre in altri Paesi nord europei e nordamericani, è normale che un giovane già sotto i 20 anni si metta alla prova. Addirittura molti inglesi e australiani della middle class mandano i figli nelle boading schools già all’età di otto-nove anni. Ma questo è veramente eccessivo!

 

Ti sei avvalsa della collaborazione di qualcuno nella stesura del libro?


No.

 

Alcune delle informazioni riportate sono frutto di esperienze personali?

 

L’esperienza personale mi è servita a filtrare gli argomenti oggetto del libro, ma ho preferito tenere separati gli aneddoti personali. Non volevo scrivere un libro autobiografico, ma un libro che, alla luce dell’esperienza di tanti espatriati di ogni nazionalità e di una vasta bibliografia, potesse rappresentare nel modo più completo possibile e attendibile la realtà con la quale chi espatria si confronta.

 

Leggendo la tua biografia, ho scoperto che hai viaggiato tantissimo per seguire tuo marito. Quali luoghi hai avuto la fortuna di visitare?

 

Sin da bambina sognavo di viaggiare e, essendo sarda, l’Isola mi andava stretta. Alle superiori, cercavo sempre di organizzare gite turistiche “nel continente”. Ho la fortuna di avere vissuto e visitato molti più posti di quanti mai potessi sperare di visitarne. Sono troppi per citarli tutti: negli ultimi mesi ho scoperto Dubai, Sidney e l’Ayers Rock, sono stata a Singapore, che da Jakarta è come fare una gita fuori porta. Ho una passione per il Sud Africa. Ho invece vissuto in Angola, in Egitto, nei Paesi Bassi, in Russia e ora sono di casa in Indonesia.

 

Quale ti è rimasto nel cuore? E in quale non ci torneresti volentieri?

 

Luanda mi ha lasciato dei ricordi forti. Le immagini della miseria, gli sguardi dei meninos da rua; i corpi mutilati dalle mine antiuomo; gli odori pungenti e l’essermi trovata più volte rannicchiata nel fondo della macchina per sfuggire alle pallottole. Di quel periodo ho ancora tanti amici, come Daniel De Schrijver, all’epoca responsabile di Medici senza Frontiere/Belgio, con il quale a bordo di un aeroplanino raggiungemmo la città di Kuito, la più minata, proprio nei giorni in cui era stata in visita Lady Diana. Ne è passato di tempo! L’altra città del cuore è il Cairo, dove ho dato alla luce mio figlio. Lo allattavo guardando il Nilo e le felucche, le tradizionali imbarcazioni egiziane, che lo attraversavano. L’Aja è facile da vivere, ma gli olandesi sono troppo ruvidi. Ho preferito di gran lunga i russi che appena scoprivano che ero italiana intonavano le canzoni di Al Bano e Toto Cotugno. A Jakarta ho finito di scrivere il mio libro e oggi sono nella fase in cui cerco di catturare ogni immagine, odore, sapore e suono che la vita in questo Paese mi offre. Il mio posto preferito è Glodok, il quartiere cinese, con i suoi templi avvolti in nuvole d’incenso e i suoi tanti venditori con i quali esercito il mio indonesiano. Mi piace osservare i medici tradizionali che vendono rimedi a base di serpenti, che vengono “lavorati” sul momento. Ho amato e odiato ciascuno di questi posti. Ma in generale dico che quanto più le condizioni di vita in un Paese sono difficili, tanto più si vive a stretto contatto gli uni con gli altri e questo crea legami unici e indimenticabili, anche con il luogo. Ma non tornerei a vivere in nessuno di questi posti, penso già alla prossima nuova destinazione.

 

A fine libro, sono riportati tanti link utili su diversi aspetti legati al trasferimento. Quanto lavoro c’è dietro?

 

Dietro a Vivere felici all’estero c’è un lavoro di ricerca, ma in mezzo ci sono stati molti capitoli della mia vita all’Aja, a Mosca; in Italia per dieci mesi prima di ripartire alla volta di Jakarta. Ogni passaggio ha richiesto tempo: informarmi sul Paese; pensare alla nuova scuola per mio figlio; prepararmi praticamente ed emotivamente al cambiamento; preparare mio figlio; organizzare lo spostamento di mobili e masserizie, che poi sono “pezzi” della tua vita; sbarcare nel nuovo Paese; cercare la casa; cercare e acquistare mobili e suppellettili e ricreare il “nido”; tenere vivi i rapporti con chi hai lasciato in Italia e ai quattro angoli del pianeta, consapevole che la prima mossa spetta a te. Lasciare sedimentare tutto ciò che di nuovo ti circonda quando sbarchi in un altro Paese.

 

Un consiglio al volo rivolto a tutti coloro che sono in procinto di lasciare l’Italia:

 

Anzitutto è importante fare il punto sul proprio stile di vita e sui propri valori. Sulle proprie caratteristiche personali e professionali. Sulla propria vita affettiva e relazionale. Sulle motivazioni che inducono a valutare l’ipotesi di espatriare. Chiedetevi: come affrontate le sfide? Quanto siete adattabili? Come siete con gli altri? Quali sono i vostri rapporti con la famiglia? E con il cibo? Amate viaggiare? In che condizioni fisiche siete? Come reagite quando la vita diventa difficile? Amate essere aggiornati su ciò che accade nel mondo?
Chi parte in coppia deve essere consapevole che le difficoltà sono per entrambi, anche per il partner che accompagna, che i primi tempi è facile che ci si ritrovi travolto da mille cose da organizzare e fare, senza conoscere ancora nessuno nel nuovo Paese e dovendosi confrontare con una realtà quotidiana spesso molto diversa da quella conosciuta. Pensiamo che cosa significhi ritrovarsi a dover organizzare la vita domestica e familiare in città come Pechino, New Delhi o Lagos! Per il partner che accompagna, che poi spesso è la donna, l’ideale sarebbe raggiungere un accordo economico che la tuteli soprattutto se, accettando di trasferirsi all’estero, ha rinunciato al proprio lavoro e all’autonomia economica. Trovarsi in un Paese straniero aumenta la vulnerabilità del partner più debole economicamente.
Meglio poi non illudersi sul fatto che un Paese che ci è piaciuto in vacanza sia anche un Paese nel quale vivremmo bene. Non sempre le cose coincidono. Andare a vivere e lavorare in un altro Paese non ha nulla a che vedere con una vacanza. Quando leggo le storie di chi ha mollato tutto per ricominciare altrove penso che per uno che riesce, altri invece falliscono. C’è chi bussa alla porta delle nostre Ambasciate non sapendo più come fare a tirare avanti, perché magari ha perso tutto in Paesi, spesso paradisi tropicali, dove criminalità e spregiudicatezza sono comuni e bisogna sapere come muoversi. Purtroppo queste storie difficilmente finiscono sui giornali, ma esistono.

 

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A cura di Nicole Cascione