Da Montmartre a Saint-Germain-des-Prés, due storie di passione e abbandono tra le pieghe di un difficile secolo

 

Sbarcare dalla metro affidandosi alla breve scala mobile che dal tunnel sotterraneo ti riporta alla superficie della fermata Notre-Dame-de-Lorette è un po’ come venire al mondo. L’oscurità si attenua, il verde sfumato del fogliame si mescola al grigio poroso della pietra urbana e i suoni, amplificati, ti piovono addosso all’improvviso, riallacciandoti al presente, alla vita, al quartiere animato e suggestivo che ospita l’omonima chiesa. Notre-Dame-de-Lorette, Nostra Signora di Loreto, colpisce per la propensione scenografica a “sormontare”. Il suo corpo cavernoso e terreo si erge letteralmente sopra gli altri palazzi, quasi stesse per staccarsi in volo, coronato da un gomitolo di viuzze che a qualche chilometro da qui raggiungono il cuore di Montmartre.

 

 

 

Se siamo giunti fin qui è per inseguire lei, la fanciulla sconosciuta che ci precede nel freddo pomeriggio, e che al prospetto serio della chiesa sembra genuflettersi un istante, prima di proseguire sul marciapiede tempestato di pioggia. Non ci sono automobili, né biciclette o veicoli a motore, perché il tempo in cui la misteriosa ragazza ci sta risucchiando è già altro, e altra è la storia che si sta scrivendo, portandosi appresso i suoi fasti belle époque.

 

La giovane, all’apparenza poco più che ventenne, corrisponde alla perfezione al ritratto puntuale che ne hanno fatto Monsieur Maupassant e Monsieur Zola: dev’essere della zona, a giudicare dall’aria familiare, dalla scioltezza con cui scivola giù dal vicolo e incrocia la strada principale: colpiscono gli occhi liquidi, grigi, rapaci, vibranti e come consapevoli di chi ha appreso a proprie spese le leggi cattive degli uomini e dei loro portafogli. E’ una di quelle, proprio così, una “lorette”, come qui si chiamano le donne di tal fatta. E’ questo il nomignolo con cui i borghesi parigini indicano questi poveri angeli della suburra. Lorette, come la Vergine a cui domandano protezione, salute e buona sorte, ma a differenza degli angeli veri queste creature infelici e poco più che adolescenti non hanno ali di piume per proteggersi dall’inverno ma lunghe mantelle di cachemire, eleganti corpetti di velluto ricoperti di pesanti giacche alla moda, e camicie costose, capi raffinati, su cui brillano spille d’opale e gioielli luccicanti come costellazioni. La città ne è piena. Se ne trovano ovunque. Quella che ci viene incontro sta certamente aspettando qualcuno, è evidente dal nervosismo con cui ritorna più volte sui suoi passi, dall’impazienza con cui si apre una direzione improbabile tra la folla, dall’avidità con cui continua a guardarsi intorno.

 

Il cliente giunge, un uomo ancora piuttosto giovane, che s’accarezza il pancione sotto la redingote, dopo essersi rimirato più volte su una vetrina. Le sussurra parole dolci all’orecchio e si mette a inseguire quei piedini leggeri. Si allontanano insieme in vista della collina: chiuderanno la notte in uno degli alberghetti a ore lungo la via, lei gli farà dono del suo corpo splendente, lui le confesserà i guai della sua numerosa famiglia per poi chiuderle nel pugno guantato qualche franco e prometterle di rivederla, di raccomandare il suo nome agli amici benestanti, lasciandole un bianco fiore di gardenia sulle chiome frettolosamente scomposte dalla passione. Ma tutto questo avverrà più tardi, restiamo a fissarli sul lato opposto della strada, sotto gli angeli immalinconiti che sovrastano la facciata della chiesa, e per un momento altri giovani, altri cavalieri, passanti anonimi e garzoni di bottega finiscono per occupare parzialmente il nostro sguardo. Quand’ecco che irrompe, lungo rue Notre-Dame-de-Lorette, il frastuono prodotto dal correre dell’ennesima vettura.

 

 

Questa volta non si tratta di un mezzo di trasporto come tanti: non un imperiale né un omnibus, ma un carro in piena regola più simile a un catafalco funebre interamente addobbato per l’occasione, zeppo su più livelli come se stesse traslocando la gran corte di Francia.

 

E’ avvenuto qualcosa d’eccezionale: lo percepiamo dal brivido che ci pervade, dalla tensione improvvisa che confonde la vista. In realtà, a parte la gravità della chiesa, a parte la sua imperturbabile aria secolare, qualcosa è davvero cambiato, il quartiere non è più quello di un attimo fa. Siamo scivolati all’indietro, abbiamo compiuto un salto di almeno vent’anni, il cielo sta illividendo ed è scoppiato un acquazzone che in poche ore laverà la città. 

 

Chiuso nello stretto abitacolo del carro lo riconosciamo: è lui, non possiamo esserci sbagliati, il suo viso è ormai quello di uno degli uomini più noti di Parigi, il pittore Eugène Delacroix, il solo che abbia avuto il coraggio d’importare in terra francese la forza e la necessità cromatica delle violente tempeste interiori dei veneziani. Pare che non lontano da qui abbia una vecchia abitazione. Ne ha viste di belle quel viso, e ne hanno viste gli occhi, velati dalle cataratte e dalle stanchezze del vivere, i lineamenti, provati dalle malattie e dalla fatica fisica, la bocca, ricoperta dai baffi, incapace di schiudersi nel più piccolo sorriso. E’ qui, tra le salite che s’inerpicano verso il nord della capitale, che è stato felice, perché è qui che negli anni lo hanno portato le sue amicizie: Baudelaire, poeta matto e focoso con cui finiva per essere sempre d’accordo, Frédéric Chopin, George Sand e gli altri. Il patto era stato chiaro fin dall’inizio: fare di questa città e delle sue ville sepolte nei lussureggianti giardini della riva alta l’olimpica Atene dello spirito e della bellezza, la novella Atene di ogni meraviglia. E c’erano riusciti. Delacroix ricorda con commozione tutto ciò che gli aveva fatto amare Parigi: le corse a tarda notte fino alla ripida rue Blanche, le brasserie di Pigalle, col loro odore di burro rancido e le serate di gala in casa dei fratelli Scheffer, allietate dai pezzi pianistici appena composti dall’amico polacco, le puttane dai seni procaci adescate nei sottoboschi bui della butte, la fuga della luna e l’inesprimibile odore dell’alba, al termine dei bagordi.

 

Tutto questo è passato, dissolto, lontano da lui come lo sono i sogni alla luce del risveglio. Baudelaire è gravemente ammalato, Chopin è morto, la Sand non la vede più se non di rado, pure il ricordo a questo punto sembra essere qualcosa d’illegittimo. E poi, quest’oggi tutto è cancellato dalle poche righe vergate su quel messaggio impaziente, dall’offerta che non è stato in grado di rifiutare e dalle parole suadenti del prelato di Saint Sulpice.

 

Tre immensi affreschi dedicati agli Angeli, tre opere enormi, pagatissime, nella prima cappella dell’imponente basilica, che gli garantirebbero, oltre alla ricchezza in vita, una gloria solida per i secoli a venire. 

 

 

 

Il prete ha fatto oscillare sotto i suoi occhi le chiavi della casa che l’artista potrebbe abitare, un appartamento moderno, ben riscaldato, con elegante atelier di sua proprietà, e un giardino di rose per i giorni di bella stagione. A lui la scelta se accettare o meno, la scelta di aggiungere alla sua carriera quest’ultima quasi definitiva consacrazione oppure opporre un netto rifiuto, seppellendo nelle tiepide ceneri delle abitudini questo invitante tassello di celebrità. Delacroix accetta. Abbandona a malincuore Notre-Dame-de-Lorette e la sua storica abitazione per approdare, anziano e senza amici, in quello che oggi viene considerato uno degli angoli più ricchi ed eleganti di Parigi: Place Furstenberg, Saint-Germain-des-Prés. Lo raggiungiamo scendendo all’omonima fermata del metrò, e rasentando sulla sinistra quella che viene giudicata la più antica chiesa cittadina. La zona fa ancora una certa impressione: cento anni più tardi Sartre, Camus e Simone de Beauvoir qui scriveranno pagine immortali.

 

Oltrepassiamo il caffè Deux Magots, il Café de Flore, risonanti ancora dei loro poetici spettri, per giungere infine alla piazzetta dove al 6 (attuale museo Delacroix), sul volgere del 1857 il malinconico artista si trasferiva a vivere, in compagnia di Jeanne-Marie Le Guillou, sua donna di fiducia e governante fin dal 1834. Passeggiando per le sale di quella che fu la loro ultima dimora, gli occhi di questa mite guardiana, questa dolcissima amica e compagna ritratta da Delacroix in uno dei suoi dipinti più intensi, ci lanciano pensosi interrogativi. Hanno dentro il sale di uno strano dolore, tutto femminile, di un segreto protetto fino alla fine, fino a quel tragico mattino del 1863 quando, due anni dopo aver terminato il ciclo dei suoi angeli vendicativi, dopo aver istoriato della sua amabile violenza le pareti ombrose di Saint Sulpice, il pittore avrebbe raggiunto il Père-Lachaise per trovare sepoltura tra le glorie della nazione.

 

 

Mi domando quanto amore negato ci sia stato nell’esistenza di questa creatura complice e devota, quanta solitudine, quale triste attesa. Sembrano chiederselo pure le camere vuote della loro dimora condivisa, quel che rimane delle lussuose suppellettili, dei ricordi d’Africa raccolti nell’atelier dalla facciata con rilievi greco-romani, della tavolozza ancora coperta di colore, del giardino risalito dalle edere, chiazzato dal sangue odoroso delle nuove rose, di Parigi, che tutto convoglia, tutto mescola nel suo perenne sistema linfatico, tutto fa palpitare nel suo orgoglioso organismo di parole.

 

Luigi La Rosa

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