Le ombre della passione: Man Ray e Kiki de Montparnasse, un amore impossibile e carnale nel quartiere più vivo dell’arte novecentesca

 

Rientrare a Parigi in settembre, dopo la calura dei mesi estivi, significa in qualche modo riscoprirne l’essenza più intima, più vera. Le giornate di sole scarseggiano, la luce del mezzogiorno comincia a declinare, il vuoto agostano è colmato dal graduale ritorno dei cittadini, ogni boulevard riprende a popolarsi, a risuonare, a fremere di vita. Non sono infrequenti gli scrosci, freddi, fragorosi, che dopo le vampate dei mesi scorsi regalano daccapo pace, freschezza, refrigerio.

 

E’ in uno di questi strabilianti mattini, in un giorno che ha scritto dentro il mistero odoroso della terra e delle foglie morte, che abbandono il cigolante convoglio della metro per scendere alla fermata appuntata sul taccuino. Vavin, Carrefour Vavin, crocevia sensibile di pensiero, arte e poesia: ne riconosco con emozione il celebre quadrilatero contraddistinto dai più famosi ritrovi di Parigi (La Rotonde, La Coupole, Le Select, Le Dôme), all’incrocio dell’ampio boulevard Montparnasse con l’arteria perpendicolare del boulevard Raspail.

 

E’ lungo l’asse prospero del quartiere che mi muovo, fantasticando un poco sui suoi risonanti spettri: Amedeo Modigliani, Jeanne Hébuterne, Auguste Rodin, Camille Claudel, Pablo Picasso, Max Jacob ed Ernest Hemingway. Sono solo alcuni, i primi che balzano alla mente, tutti in un modo o nell’altro imparentati con la memoria della città, me li porto dietro per un buon tratto, dialogando silenziosamente con loro mentre scavalco con agilità i primi avvallamenti delle pozzanghere traboccanti di pioggia. Avanzo ancora per diversi isolati, nell’oscillazione lenta e teatrale dei rami degli ippocastani – sento che qualcosa è decisamente cambiato, nell’aria non più ferma dell’estate, nella tensione scoperta che sembra abitare la luce, nel freddo dei sorrisi e delle espressioni della gente, e Parigi mi appare quasi più bella, più matronale, nell’ingiallito piumaggio dell’autunno incipiente.

 

 

Rue de la Campagne-Première. E’ qui che quasi macchinalmente mi fermo: il respiro ingrossato mi ricorda la celebrità della via: troppe storie, troppi nomi qui hanno preso parte all’edificazione del mito della capitale. Arthur Rimbaud, che trascorre in una delle camere affacciate sul boulevard alcune delle sue più tormentose notti. Eugène Atget, artista impenitente, disperato, forse fra gli ultimi e più intensi fotografi ad aver cantato i fasti della Belle Époque. Vincent van Gogh, che pare da queste parti abbia avuto per breve tempo un modestissimo atelier, e ancora Oscar Wilde, sopravvissuto alla galera e all’infamia inglese, Tristan Tzara, Picabia, i numerosi ospiti dell’Hotel Istria, che ancora oggi anima e contraddistingue il quartiere, ma soprattutto loro, i mitici amanti di Montparnasse, voluttuosi e creativi, il venerato Man Ray, arrivato dall’America con un’aggressiva scorta di sogni e l’umile Kiki, la più bella e chiacchierata modella di Parigi, l’invidiata Reine delle notti mondane, già amata dal pittore giapponese Foujita, ritratta con acume dal genio di Modigliani, eternata nello scatto più noto del fotografo statunitense.

 

La prima cosa che colpisce chi giunge in questa via è proprio l’edificio che conterrebbe, secondo fonti più o meno certe, l’abitazione in cui vissero i due e che Man Ray utilizzò insieme come studio e atelier personale. Siamo nel cuore di Montparnasse, il cimitero coi suoi eroi invisibili e i suoi neri uccelli di morte non dista da qui che poche centinaia di metri. Pure lì, tra le pareti di nuda pietra e le lapidi sfregiate dal tempo, tutta una fertile schiera di ospiti illustri: Baudelaire, Maupassant, Sartre, Simone de Beauvoir e Cortázar, solo a volerne citare alcuni. Ma è qui che oggi la passeggiata mi spinge, davanti agli oblò terrosi, con gli scuri visi di donna protesi sul marciapiede, tra arazzi di marmi policromi ed eccentriche composizioni, sotto le imponenti vetrate che indicano il passaggio di personalità nettamente al di fuori del comune.

 

 

Man Ray incontra la desiderata modella di Modigliani a La Rotonde, il più famoso caffè degli anni Venti, luogo di raccolta dei principali artisti dell’epoca. Siamo nel gelido inverno del 1921, il giovane fotografo è giunto dall’America mosso dalla sua instancabile ambizione, e incoraggiato dall’amicizia con Marcel Duchamp. E’ lui che gli ha proposto d’imbarcarsi, di raggiungere Parigi, prospettandogli risorse e possibilità in grado di procurargli fama e danari. E come tanti, pure Man Ray parte, attraversa l’oceano burrascoso, ingigantendo dentro di sé le attese della svolta che cambierà per sempre la sua vita.

 

Kiki, figlia illegittima rinnegata dalla madre per la sua natura libera e provocatoria ai limiti dello scandalo, vittima di una povertà indecente ma consapevole del fascino irresistibile del suo corpo felino – lo stesso che sformeranno e ingrasseranno orribilmente gli anni, gli amori mancati, le disillusioni, le brucianti ferite del vivere – è già la donna più ambita del suo tempo. La si incontra per le stradine che circondano il cimitero, o seduta ai tavoli dei bistrot col lungo cappotto scuro sotto cui – mormorano i più maligni – sembra non porti nulla tranne lo stretto foulard sgargiante a serrarle il collo, ed è stata l’amante ufficiale di uomini geniali e insostenibili come Soutine e Moujita. E’ una creatura perfetta, un’adolescente non troppo cresciuta, che ha fatto cento mestieri prima di ritrovarsi tra le fila di artisti e intellettuali ribelli e scapestrati, e ha conosciuto i morsi della fame, della privazione, della malattia, del declino.

 

Man Ray l’ha puntata coi suoi occhi scuri senza troppe parole, invitandola a bere del Porto e a fumare qualche sigaretta, e in pochi giorni i due si sono fusi nella coppia probabilmente più pazza e stravagante della capitale, lui ossessionato dal bisogno di ritrarla, di rappresentarla, di renderla al mondo alla luce della sua grazia ellenica, lei felice di prestare le sue forme avvenenti all’arte del novello surrealista.

Il talento deve fare i conti poi con l’amaro del quotidiano, un quotidiano ruggente, fatto di scoramenti, reciproci abbandoni e scenate di gelosia sull’orlo della violenza fisica, un’esistenza costellata di solitudini e di ritorni, di pentimenti e di riappacificazioni, che rinserra gli amanti l’uno nelle braccia dell’altro, con sempre maggiore foga, o forse con sempre più disperante abnegazione. Lui fa di lei un violino, un meraviglioso violino dal corpo grigio, elegante, studiato nella postura e risalito dalle ombre, fissato nell’attimo della comprensione piena del sentimento, rappreso nelle tonalità indimenticabili e assolute dell’opera d’arte. Poco più in là, a solo qualche porta di distanza dai due (ma del punto esatto abbiamo purtroppo perduto il riferimento), la modella italiana Rosalia sfama con pentole di pastasciutta e qualche tozzo di pane i pittori che ogni notte scampano alla malora e all’isolamento del mondo borghese.

 

Interessante sarebbe riscoprire nell’impegno eroico e giornaliero di questa generosa mecenate dei poveri un’altra struggente storia d’amore, d’adesione, e una vocazione alla dolcezza di cui rimangono tracce eloquenti. Pare che la donna avesse dapprima tentato la carriera della danza, poi – come ricorda Corrado Augias nel suo fortunato volume dedicato ai segreti di Parigi – quella della posa per gli artisti del tempo, ma la povertà e la salute malferma la spingeranno in direzione di una più modesta attività famigliare: l’apertura di un’osteria insieme al figlio Luigi. Rosalia trascorre le sue notti dietro i pentoloni fumanti, organizza una mensa tra le più efficienti e le meno costose di tutta Parigi, pronta a ospitare ogni giorno un’intera brigata di vagabondi, affamati, artisti falliti e imbrattatele senza un soldo. Ad aiutarla nella gestione del minuscolo ristorante aperto sulla rue soltanto il figlio: unico legame affettivo col suo paese di provenienza, unico punto fermo nella sua vita di perenne tristezza, unico erede di un’impresa anzitempo votata alla sconfitta.

 

 

Non uno dei disegni, degli schizzi, degli scarabocchi con cui Modigliani per primo, e dietro di lui parecchi altri, tenteranno di ricompensare la generosità dell’italiana verrà conservato o messo da parte, non uno di quei capolavori in erba valutati oggi a prezzi inesprimibili, per garantirsi un futuro, una serena vecchiaia, la ricompensa per aver lavorato tanto, e in condizioni disumane. Rosalia morirà nell’indigenza di una buia periferia, lontana da tutto, dal fasto di Montparnasse, dalla gratitudine dei suoi amici pittori, dal sogno di compimento per cui aveva tanto agonizzato, da una qualunque ipotesi di riscatto esistenziale.

 

Nel vento triste che tutto a un tratto si è levato, nella curva lieve che tracciano le foglie prima di scendere giù dai rami e morire sull’umido selciato parigino, ho la sensazione di percepire qualcosa in più, qualcosa di più profondo e di più caldo, di simile a un respiro, forse un sospiro, un sospiro di rimpianto e di dolore. Vado via ripensando alla favola infelice di questa donna, questa compaesana, approdata a Parigi per il peso di troppi sogni e travolta da una vita di stenti e impossibilità. Sebbene sia poco, questo pezzo, questa passeggiata, queste parole sono per lei e per il suo esempio coraggioso. E’ stata una portatrice di luce. La terra le sia lieve.

 

 

Luigi La Rosa

 

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