Dall’Africa al Perù: aiutando gli altri ho scoperto me stesso

 

Matteo Righettini è una persona molto riservata. Lo so perché lo conosco. Della sua esperienza di volontariato in Perù, ad esempio, ne ha parlato poco, pochissimo. "Quando le persone mi chiedono com’è andata rispondo semplicemente che è andata bene, magari faccio qualche commento su com’era il paese, la gente, ma nulla di più. Da una parte non posso mettermi a raccontare per ore e ore tutto quello che ho vissuto, dall’altra non so nemmeno quanto sincero sia l’interesse dell’altra persona". Io il tempo ce l’ho, e l’interesse sincero pure. E così, davanti a un aperitivo mattutino, Matteo si apre, si racconta, mi mette a parte della sua fantastica esperienza.

"Nel 2010 e nel 2012 ho fatto due esperienze in Africa, di un mese ciascuna. Sono partito con il Don del mio quartiere e altri ragazzi alla volta del Mozambico per visitare missioni e villaggi. Eravamo tutti ragazzi abbastanza giovani (la prima volta avevo 16 anni) e dunque non abbiamo potuto aiutare granchè: al più giocavamo con i bambini delle scuole che andavamo a visitare, organizzavamo tornei sportivi e poche altre cose. Nonostante io sia stato un mero visitatore, sono rimasto davvero colpito da queste due esperienze e non esagero nel dire che hanno cambiato le mie prospettive di vita. Solo dopo essere tornato dal Mozambico ho iniziato a maturare il desiderio di fare qualcosa di più, di partire da solo e stare via più tempo per provare ad avere un impatto reale, un’esperienza più vera e profonda. Allora ho contattato l’ufficio missionario esternando il mio desiderio e dopo una settimana ho incontrato Suor Saveria, una missionaria che segue vari progetti in tutta l’America Latina. Durante il nostro incontro mi ha detto che sarebbe stato possibile andare in Argentina o in Perù. Mi ha spiegato le varie missioni e cosa sarei andato a fare e ho scelto il Perù. 

Perché proprio il Perù?

Perchè è un paese che mi ha sempre ispirato e perché avrei lavorato in un ambiente più povero e bisognoso.  

La partenza?

Il primo febbraio ho preso l’aereo e sono volato in Perù. All’aeroporto mi ha accolto una signora peruviana, Giovanna, che è la responsabile della Missione. Dopo 10 ore di pullman sono arrivato a Victor Raul, un paese di 10.000 abitanti a 40km da Trujillo. Il paese si affaccia sul mare ma si trova in una zona completamente desertica, eccezion fatta per i campi di asparagi, proprietà di varie multinazionali, che circondano l’abitato. Victor Raul infatti è nato grazie ai coltivatori di asparagi che, una volta trovato lavoro come braccianti per conto di queste multinazionali, sono scesi dalle Ande e qui si sono stabiliti. Non avrà più di vent’anni.  La Missione di Victor Raul si chiama Casa della Gioventù (Casa de la Juventud). E’ una scuola che accoglie bambini dall’asilo fino alle superiori, e comprende anche la casa in cui abitano Giovanna e un uomo di nome Jorge, il tuttofare. Io ho abitato con loro. Quando sono arrivato la scuola era chiusa, quindi ho avuto un mesetto per ambientarmi. All’inzio ho fatto lavoro di segreteria per gestire le iscrizioni dei futuri scolari, ma ho anche girato molto. Giovanna mi portava spesso in città ed ero sempre con lei quando andava a visitare le famiglie dei bambini che sarebbero venuti da noi.  

 Come mai andavate a visitare le famiglie?

Ogni giorno c’era qualcuno che veniva a bussare alla porta della Missione, ogni sera c’era una mamma – perchè è la donna che si occupa della famiglia – che veniva a chiedere aiuto o a sfogarsi per le sue disgrazie. I problemi erano i più disparati, dal marito violento al figlio drogato, generalmente tutte situazioni piuttosto difficili. Ho visto più persone piangere in quel mese che in tutta la mia vita. Dunque il giorno dopo si andava a trovare queste persone a casa, per parlare e cercare di trovare delle soluzioni. Così mi sono reso conto che oltre alla povertà materiale, che vuol dire case senza pavimento, senza bagno, senza acqua corrente, costruite con mattoni di fango, la gente vive situazioni difficili, situazioni familiari anche disastrose. Mi ha sempre colpito che nonostante la povertà e l’indigenza, questa gente ci invitasse a restare per pranzo tutte le volte che andavamo a fare visita. La generosità che hanno saputo dimostrarci certe volte è stata disarmante. Una volta io e Giovanna siamo andati a fare visita a una famiglia veramente disastrata. Il figlio maggiore era stato accusato di stupro ed era detenuto nel carcere minorile. I genitori si erano fatti spremere a dismisura da un avvocato disonensto e il padre, depresso, aveva smesso di andare a lavorare. Insomma, non avevano più soldi, non avevano più nulla. E sai quanti altri figli avrebbero dovuto sfamare? Quattro. Quando siamo andati a fare visita abbiamo cercato di consigliare queste persone e di far loro capire che non era giusto compromettere il futuro di tutti i figli per lo sbaglio del primo. Arrivata l’ora di pranzo, ci hanno invitato a restare. Ovviamente abbiamo declinato l’invito ma loro hanno talmente insistito che siamo dovuti rimanere. Abbiamo mangiato del riso, e un pollo. Ce n’era solo uno e nel dividere le parti e distribuirle, hanno dato il petto a me. Allora capisci che anche nella povertà, cercano in ogni modo di dimostrarti il loro affetto. A chiunque potrà sembrare una stupidata, ma è stato un gesto enorme. Io che l’ho vissuto, ti posso dire che è stata una cosa forte, una cosa che mi ha colpito incredibilmente e che ha avuto un profondo significato. Vedranno un pollo una volta al mese, capisci? 

Com’è stato vivere nella Missione?

Il materasso su cui dormivo era di gommapiuma, e le assi del letto erano di legno grezzo, tutte spigolose. Quando alla seconda settimana ho avuto la gastointerite e sono dovuto rimanere fermo a letto per delle giornate intere, mi sono venute le piaghe sulla schiena. Poco dopo ho contratto anche l’epatite A, e ho dovuto fare altri giorni a letto. Una vera tortura! 

E quando è iniziata la scuola come si è evoluta la situazione?

Tutto si è animato! Gli studenti iscritti erano 500, tra bambini e ragazzi.
La settimana seguente l’inizio è arrivata Suor Saveria a fare la programmazione annuale. E’ stata una settimana pienissima, c’erano 5 o 6 riunuoni al giorno tutti i giorni! In Perù le scuole non mancano e il sistema scolastico è piuttosto articolato. Nella stessa Victor Raul c’era anche una scuola statale.
 

Voi cosa offrivate in più rispetto alla scuola statale?

Premetto che la Missione non è gratis, a ciascun iscritto viene richiesto un piccolo impegno. Alla fine però cosa succede? Si fa venire metà degli studenti gratuitamente dato che in alcuni casi hanno appena i soldi per mangiare. Questo è possibile perchè Giovanna conosce ogni singola famiglia e sa chi non si può davvero permettere la scuola dei figli o chi va a sperperare i soldi al bar. Inoltre la missione offre tantissime attività pomeridiane, dallo sport ai corsi di cucina e in generale è sempre aperta per chiunque voglia semplicemente andare lì a studiare o giocare. Ai professori, che sono normali professori statali, si chiede qualcosa in più. Devono essere disponibili ad aiutare i ragazzi e le loro famiglie, a fermarsi qualche pomeriggio per fare ripetizioni e dare una mano agli studenti in difficoltà. La grande differenza è che la missione presta una particolare attenzione non solo allo studente, ma alla persona. Cerca di offrire delle prospettive per il futuro, di far capire che esiste qualcos’altro oltre al lavoro nei campi, che si devono mettere da parte i soldi e non per comprarsi il cellulare da mostrare agli amici del paese, ma per riuscire un giorno a vivere in una casa in muratura e non di fango. L’aiuto spesso è anche più concreto. Più volte mi sono presentato io stesso a casa di alcuni bambini per regalare loro dei quaderni. Quando qualcuno non veniva a scuola per più giorni, partivo assieme a Giovanna per scoprirne il motivo. E’ questo supporto umano ciò che offre davvero la Missione. 

I soldi che arrivano alla Missione provengono da donazioni di privati?

Sì, la Chiesa non manda nulla. Suor Saveria fa parte di una congregazione, ma in realtà ha fatto tutto da sola. E che cosa ha fatto! Solo in Argentina ha fondato 11 scuole. E’ una donna con una forza incredibile, una lavoratrice instancabile. Non si è mai presa una vacanza in quarant’anni! Ha davvero dedicato la sua vita alla Missione. Io ancora oggi mi chiedo come abbia fatto a costruire quello che ha costruito, con tutte le difficoltà che ha dovuto affrontare.

 

 Che incarichi ti hanno affidato?

All’inizio avevo molta libertà, soprattutto perchè non conscevo la lingua. Facevo le cose più disparate, come ad esempio le supplenze nelle classi, la spesa per tutti, le pulizie, i piccoli lavoretti. Il pomeriggio a scuola spesso Giovanna non c’era e quindi ero io che accoglievo i bambini per le attività pomeridiane, preparavo le classi, mettevo tutto in ordine. Dopo qualche tempo ho iniziato ad essere più autonomo e andavo fino in città a fare le commissioni più svariate, comprese quelle burocratiche. Sicuramente non sono mai stato con le mani in mano. La mattina ci si svegliava alle 5 e mezza e via a lavorare! 

Alle 5 e mezza?! Come è possibile?!

Oltre alla scuola avevamo il Comedor, la mensa. Era un progetto nato qualche anno prima ma poi accantonato. Quando sono arrivato e ho scoperto di questa cosa, mi sono preso l’impegno di rimettere a nuovo l’attività e di gestirla. Ho chiesto aiuto ai miei familiari per raccogliere un po’ di fondi così da poter tenere in piedi la mensa tutto l’anno e poter offrire un pasto completo almeno ai 12/13 bambini più bisognosi della scuola. E ci sono riuscito! Certo è stato un bell’impegno. Mi alzavo alle 5 e mezza per cucinare, fino alle 6.30. Dopodiché andavo a fare i miei lavori di segreteria e poco prima dell’ora di pranzo ritornavo in cucina per scaldare i pasti, impiattare e apparecchiare. E poi accoglievo i bambini! 

Facevi orari massacranti..

Abbastanza, ma in ogni caso la scuola chiudeva presto il pomeriggio perché il sole non tramonta tardi. E con il buio ti devi chiudere in casa. 

E’ possibile che un paese così piccolo sia così pericoloso?

Devi tenere in conto che c’è molta tensione sociale. Il paese è recente, c’è gente da tutto il Perù venuta per lavorare nei campi. Quindi non ci sono tanti anziani e l’età media sarà 40 anni. E’ gente che si trova lì per caso, senza radici, che vive situazioni difficili. Fino a qualche anno fa inoltre non esisteva la polizia: ti lascio immaginare che traffico di droga si è creato. Non avere avuto alcun tipo di controllo ha fatto arrivare spacciatori e bande criminali da fuori. E la povertà rende queste cose virali. 

Ti è mai successo qualcosa, o hai un episodio da raccontare relativo a questo argomento?

Una delle ultime sere ero a casa da solo e verso le 7, dalla mia stanza, ho sentito 3 o 4 botti provenire da poco lontano. Non mi sono spaventato immaginando i soliti petardi che i ragazzi si divertono a fare esplodere di tanto in tanto per la strada. Invece un’ora più tardi è venuta a chiamarmi una signora che fa le pulizie a scuola, e mi ha detto che a venti metri dalla mia finestra avevano appena sparato a un ragazzo di vent’anni, uccidendolo. Probabilmente per debiti di droga.  

Sei riuscito a stringere amicizia con qualcuno, a creare un rapporto con una persona particolare, o più persone? Vedo che nelle tue foto sei sempre circondato da bambini!

I bambini in Perù… ti vogliono bene! Qui stanno diventando tutti sempre più viziati, sempre più sfrontati. Non è una frase fatta, facendo l’animatore al grest qui in Italia ho visto la differenza. Lì sono molto più umili, più affettuosi, e poi sai, io ero lo straniero, la novità! La mattina io mi mettevo davanti al portone per accogliere gli scolari e tutti i bambini che entravano mi davano sempre un enorme bacio sulla guancia e mi abbracciavano! Con i ragazzi più grandi, i miei coetanei diciamo, magari mi mettevo d’accordo per andare a giocare a calcio il pomeriggio. Ma non ho potuto stringere una grande amicizia. Ho sempre dovuto mantenere una certa distanza dagli studenti. Per esempio Giovanna mi aveva consigliato di dire in giro che avevo 25 anni perché altrimenti nelle ultime classi delle superiori avrei incontrato coetanei con i quali non avrei potuto avere nessuna autorità. Io per loro poi ero il gringo, il bianco pieno di soldi che dalla lontanissima Europa arriva a fare una vacanza folkloristica. Io sono una persona normalissima in Italia, i miei genitori hanno dovuto fare dei sacrifici per potermi far fare questo viaggio, ma vaglielo a spiegare. Mi chiedevano quanti piani ha la mia casa, quanto è grande la mia piscina, dando per scontato che io facessi una vita da yuppi americano. Conseguentemente quando si andava a giocare assieme a pallone e magari si scommetteva dovevo pagare sempre e solo io, quando si andava a comprare qualcosa da bere dovevo offrire io, ecc. Io l’ho sempre fatto volentieri ed effettivamente mi costava solo qualche centesimo comprare una bibita qualsiasi, ma era necessario che tutto avvenisse sempre con il massimo rispetto, altrimenti sarebbe degenerato. E anche i ragazzi, da parte loro, non mi concedevano troppa confidenza. Mi hanno sempre visto come l’europeo che viene a fare la vacanza, che finiti i 2 o 3 mesi di permanenza se ne ritorna a casa e atutte le sue comodità, lasciando loro nella stessa miseria di prima.  

 Pensi di poter dire che i tuoi sforzi sono stati ricompensati?

Tutto quello che ho fatto mi è tornato indietro, cento volte. Non ho fatto nulla per mettermi in mostra, nessuno di loro per esempio sapeva che ero io che cucinavo per il Comedor. Dunque ho visto persone girarsi dall’altra parte e non mostrare un minimo di gratitudine, ho vissuto situazioni difficili che mi hanno anche portato a chiedermi cosa fossi venuto a fare. Ma poi pensavo a Giovanna, al fatto che lei sta dedicando la sua vita alla missione e ai ragazzi: quante sconfitte ha dovuto affrontare? Tante. Eppure non si è mai persa d’animo. La gratitudine che vedi negli sguardi e nei saluti di molte famiglie, la riconoscenza e l’affetto che ti dimostrano, ti ripaga di tutto.  

Ti farò una domanda difficilissima: c’è un episodio speciale che ti porti dentro?

Sì, c’è! Devi sapere che Giovanna ha un nipote piccolino, figlio di sua sorella, al quale è tanto affezionata. Cinque anni fa un ragazzo italiano, che aveva lavorato presso la missione come ho fatto io, lo ha visto nascere. Si può dire che avesse tenuto la mano alla sorella di Giovanna proprio durante il parto. Si è inevitabilmente creato un rapporto speciale con questo ragazzo, che però non è più potuto tornare a Victor Raul e non ha potuto mantenere la promessa che aveva fatto: diventare il padrino del piccolo. Giovanna allora, solo due mesi dopo il mio arrivo, ha chiesto a me di prendere il suo posto e fare il padrino. Devo dire che avevo creato un bel rapporto con lei e andavo spesso a mangiare dalla sua famiglia, ma la sua richiesta mi ha sbalordito e ha significato una grandissima riconoscenza. Soprattutto perché il padrino in Perù è considerata una figura importante. Per esempio tutte le volte che andavo a trovare Marco, il bambino, la madre non lo esortava a salutare "Matteo", ma gli diceva "dai Marco, dì ciao al tuo padrino". A maggio dunque si è celebrato il battesimo e la sera si è fatta festa. E che festa! In quelle zone sono tutti molto religiosi e per un evento del genere si presenta tutto il parentame: nonni, zii e cugini da ogni angolo delle Ande e delle sierre! Abbiamo bevuto, ballato, ballato e bevuto! E’ stato un bellissimo momento di condivisione, un ricordo speciale. Ora quando mi guardo indietro mi dico che dovrò tornare a fare visita a questo bambino, perché siamo legati.  

Una volta tornato, hai iniziato a vedere le cose in modo differente?

Il ritorno non è stato facile. Dopo aver vissuto una cosa del genere è inevitabile vedere le cose in modo diverso. All’inizio mi sentivo in colpa per tutto, per qualsiasi mio svago e qualsiasi mio acquisto non strettamente necessario. Dopo un po’ mi sono rilassato: ognuno deve vivere la propria vita. Ora cerco una via di mezzo, che vuol dire concedermi le serate con gli amici ma allo stesso tempo condurre una vita sobria, con un occhio di riguardo per cercare di essere coerente con le mie scelte. Allo stesso modo, all’inizio provavo un forte senso di fastidio nel vedere che le persone che vivono accanto a me sono insensibli a certe tematiche, ossia alla povertà e alle condizioni di vita di quella gente. Ma ho cercato di superarlo: io le ho vissute sulla mia pelle, è diverso. Il volontariato è una cosa che mi ha cambiato davvero, ma che gli altri non possono capire, e allora faccio finta di niente. Puoi raccontare, ma i racconti valgono un millesimo delle cose vissute. E non tutti possiamo pensare alle stesse cose! 

Progetti di ritornare?

Vorrei tornare per salutare le persone. E vorrei tornare in Africa. Ora sto studiando medicina, e spero in futuro di avere la possibilità di andare ad aiutare i volontari negli ospedali africani. 

La tua scelta di fare medicina è stata forse influenzata dalle tue esperienze di volontariato?

Un po’ sì. In quarta superiore ti avrei detto convintissimo che sarei andato a studiare economia. Ero iscritto a ragioneria, mi piaceva e riuscivo bene. Ma quando è arrivato il momento di prendere la decisione, mi sono reso conto che non avrei voluto passare tutta la mia vita a parlare di soldi. Ma che fare allora? Facevo volontariato al 118 e mi piaceva, ma il test di medicina mi sembrava un miraggio. Dunque sono partito, sono andato in Africa, poi in Perù e una volta tornato mi sono iscritto a infermieristica. Mi piaceva ed ero bravo. Ma medicina continuava ad attirarmi. Un giorno ho scoperto della possibilità di fare il test d’ingresso di medicina ad aprile. Mi sono detto: perchè non provare? La "prova" è diventata una sfida con me stesso e dopo un mese di studio intensivo sono riuscito a passare il test. Ora sono la persona più felice, e convinta, del mondo. Medicina è la mia passione. Mi porterà a fare un lavoro che non solo mi permetterà di aiutare le persone, ma di regalare loro anche qualcosa dal punto di vista umano. E sì, è il volontariato che mi ha fatto scoprire questo mio lato, o che ha accentuato questa mia vocazione. In Perù ho capito che stare vicino alle persone che soffrono e che hanno bisogno di una mano è quello che voglio fare nella vita. Forse c’è anche un altro motivo, sai? Verso la fine della mia permanenza è venuta a farci visita a Victor Raul un’associazione spagnola di ragazzi che lavorano negli ospedali pediatrici come animatori. Ho stretto un bellissimo rapporto con queste persone, mi hanno fatto trascorrere 15 giorni stupendi. Ma soprattutto mi hanno fatto venire la voglia di imitarli. Quando ho passato il test di medicina mi hanno scritto "benvenuto alla più umana delle scienze e alla più scientifica delle umanità". In spagnolo giuro che suona meglio! 

 Insomma, il Perù ti ha dato la spinta che cercavi! Ma dici che può essere così per tutti?

Per tante persone non è facile fare un’esperienza del genere. E’ dura svegliarsi una mattina e decidere di andare sei mesi in Perù. Però se si trova la voglia, allora bisogna lanciarsi e accantonare le paure. Io quasi non sapevo nulla di quello che avrei fatto quando sono partito! Avevo così tanta adrenalina che non me ne fregava nulla. Ero sicuro che sarebbe venuto qualcosa di buono, e così è stato. Se si ha un minimo di possibilità, bisogna farlo. Senza paura. Perchè vivere in un mondo completamente diverso ti apre la mente a 360°. Ti cambia, punto.  

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A cura di Giulia Rinchetti