Dal West al Web: un’avventura in Silicon Valley, di Roberto Bonzio

 

Roberto Bonzio, con “Italiani di frontiera. Dal West al Web: un’avventura in Silicon Valley”, ha raccontato un avvenimento che gli ha cambiato la vita e che gli ha così permesso di inventare un lavoro che prima non esisteva. Roberto, oggi, è un giornalista che gira l’Italia con storytelling multimediali e racconta storie di brillanti menti italiane che a Silicon Valley hanno raggiunto il successo.

 

Roberto, parlaci del tuo progetto Italiani di Frontiera. Quando e come è nato?

 

Con il libro pubblicato qualche mese fa (Italiani di frontiera. Dal West al Web: un’avventura in Silicon Valley, EGEA, prefazione di Gian Antonio Stella:  ho trasformato in racconto un’avventura che mi ha cambiato la vita e mi ha permesso di inventarmi un lavoro che non c’era, girando oggi l’Italia con storytelling multimediali, in grandi eventi, spesso ospite di grandi aziende, davanti a quasi 13mila persone. Chi sapeva cosa volesse dire storytelling, quando nel 2008, facendo tutto da solo, sono partito con la famiglia per sei mesi di aspettativa (ero giornalista Reuters) in California? La curiosità è stato il motore, per individuare un filo rosso fra quanti hanno sfidato frontiere geografiche nel West, scienziati e imprenditori che a Silicon Valley sono protagonisti nel settore dell’innovazione. Un filo che aiuta a capire i segreti del talento italiano, basato sulla capacità di ragionare fuori dagli schemi. Ma è stata la forza inaspettata della narrazione, l’impatto emotivo d’ispirazione di queste storie a farmi capire che questo sarebbe diventato il mio nuovo lavoro. Nel frattempo, senza accorgermene, sono diventato parte delle storie che racconto.

 

Ti definisci un giornalista curioso che nel 2011 ha lasciato il posto fisso, all’agenzia internazionale Reuters a Milano, per dedicarsi a tempo pieno a IdF. Oltre che curioso, anche molto coraggioso, no?

 

Italiani di Frontiera è diventato un percorso di non ritorno. Dopo quei sei mesi sono ovviamente tornato in Italia, ma completamente cambiato. Ho iniziato a vedere in modo diverso il Paese, i suoi problemi, le sue potenzialità, ma anche me stesso e il modo di fare giornalismo. Puoi raccontare storie che emozionano, dire che occorre rischiare, tentare percorsi inediti, credere nelle proprie folli idee, per poi scappare a fare un turno in redazione per portare a casa lo stipendio? Sì, forse c’è voluto pure un po’ di coraggio, sapendo che di non ritorno sarebbe stata anche l’uscita dal giornalismo tradizionale. Ma a ripensarci è stato un percorso lineare e malgrado le mille difficoltà sono felicissimo di aver avuto quel coraggio.

 

 

Hai vissuto a Silicon Valley per sei mesi insieme alla tua famiglia. Cosa ricordi di quel periodo?

 

Mille incontri, fra storie del passato, interviste a personaggi storici, nuove amicizie… ma un filo unico. La curiosità come motore inesauribile; la scoperta continua. A cominciare dalla vita quotidiana, quando ad esempio in una strada larga cinquanta metri metti un piede sul passaggio pedonale e vedi le auto rallentare e fermarsi anche nella corsia opposta, realizzi che in Italia spesso gli automobilisti accelerano per intimarti di non azzardarti a pretendere la precedenza che ti spetterebbe. Dunque l’esperienza all’estero ti aiuta come sempre a capire meglio il Paese da cui provieni. E poichè la culla mondiale dell’innovazione non è un distretto industriale, ma un “luogo della mente”, un modo di pensare, questo spinge automaticamente a capire i paradossi di un Paese come il nostro, fucina inesauribile di talenti spesso mortificati da modi di pensare cui siamo assuefatti: non saper fare squadra, diffidare del cambiamento visto come pericolo e non come opportunità, attriti e conflittualità assurde, sino ad arrivare a realizzarsi nella sconfitta altrui: l’ho chiamata Sindrome del Palio di Siena.

 

Raccontaci un aneddoto legato alla realizzazione del progetto.

 

Dove ti può portare la curiosità? Non puoi saperlo. Un’altra parola chiave di quest’avventura è stata “Serendipity”, quella predisposizione alla ricerca che ti fa scoprire cose che non cercavi, ma che d’altra parte non avresti mai trovato senza esserne alla ricerca. Com’è successo a Cristoforo Colombo che mai avrebbe scoperto l’America se non fosse partito, cercando una rotta per l’India. Beh, non dimenticherò mai la cerimonia dei diplomi della Gunn High School frequentata dai miei figli. Scatto una foto a una ragazza dal cognome italiano, poi scopro che i suoi nonni, veterani della comunità italiana, in un pubblico di mille persone erano a pochi metri da noi. Così facciamo amicizia, mi invitano a cena e mi ritrovo a casa loro, seduto a tavola con Federico Faggin, padre del microchip, e con Luca Cavalli Sforza, leggendario genetista. In pratica, i numeri uno fra imprenditori e scienziati italiani della Bay Area. Quante possibilità c’erano, alla partenza, che potesse avvenire una coincidenza del genere? Ma se non avessi scattato la foto, se non avessi cercato nella folla i nonni…

 

 

Con quali finalità hai dato vita al progetto?

 

Sono partito senza la minima idea di cosa sarebbe potuto diventare Italiani di Frontiera. Tutto sommato poteva restare una raccolta di interviste e storie, è diventato molto di più. Perché mi ha fatto capire qual è la forza del racconto e come si possa fare il giornalista lontano dalla redazione. Ma soprattutto, che più delle analisi contano le storie di persone, che aiutano a creare empatia e far volare le idee. E che bisogna saperle intrecciare con percorsi e collegamenti inediti, persino eccentrici. Questo modo di procedere ti fa catturare significati che sfuggono al pensiero lineare. E alla fine Italiani di Frontiera conquista, con un messaggio di ottimismo. Che non è “scappa dall’Italia”, perchè abbiamo tutto quel che serve per affrontare il futuro, ma per farlo dobbiamo passare per una vera Rivoluzione Culturale. E le storie emozionanti aiutano a ispirare.

 

Com’è strutturato Italiani di Frontiera?

 

Sono partito con un semplice blog ed è stato preziosissimo scrivere da subito, mentre ero a Silicon Valley a raccogliere interviste e storie. Lì c’è un’accessibilità e facilità di contatti inimmaginabile per noi, abituati a segretarie, mail senza risposta, attese, porte chiuse se non ti presenta qualcuno, ma il fatto di avere già contenuti pubblicati ha reso tutto ancora più semplice e rapido, perché dopo qualche mese le persone che contattavo mi conoscevano e apprezzavano quel che stavo facendo. Oggi il sito con testi, foto e video è solo una parte della mia attività. Sto promuovendo con presentazioni in tutt’Italia il libro, che presto sarà in ristampa, poi svolgo un grosso lavoro di fidelizzazione e marketing sui social media, con migliaia di persone che mi seguono in Italia e all’estero. Ma conferenze, seminari e storytelling restano il centro del mio business. Assieme ai viaggi per imprenditori e manager che porto periodicamente nella Bay Area: Vi sono grandi potenzialità di crescita, visto che i professionisti che vi prendono parte tornano entusiasti, con una miriade di idee, incontri e spunti che non sono riservati affatto a chi lavora nel digitale, ma che offrono chiavi per innovare nel proprio lavoro in Italia, in qualsiasi settore. Ho portato in Silicon Valley anche imprenditori agricoli, dell’impiantistica, dell’acciaio, manager dei surgelati.

 

 

Quante storie di italiani emigrati nella Silicon Valley hai raccolto?

 

Beh, direi che storie e interviste raccolte a Silicon Valley sono decine, molte di più quelle pubblicate su Italiani di Frontiera, dove ho inserito diverse interviste a “Italiani di Frontiera in patria”, fantastici imprenditori e innovatori che spesso hanno storie entusiasmanti e non adeguata visibilità. Un esempio? Ugo Parodi Giusino con la sua Mosaicoon, fuoriclasse mondiale nel settore dei video virali, con un’ azienda giovane d’avanguardia, con sede a due passi dalla spiaggia di Mondello a Palermo.

 

A chi ti rivolgi principalmente con Italiani di Frontiera? E che tipo di riscontro sta ottenendo?

 

La grande soddisfazione sinora è stata quella di scoprire che queste storie d’ispirazione sanno conquistare i pubblici più diversi. Certo per imprenditori, innovatori e startupper incrociati in tanti eventi importanti, hanno un valore particolare. Ma l’impatto è forte pure sui più giovani universitari, ma anche studenti delle superiori, che sono conquistati da esempi che spingono a credere nei propri sogni, mortificati troppo spesso da frasi del tipo “non si può fare” o “abbiamo sempre fatto così”. Ma pure sui più anziani, dai circoli professionali ai club che mi hanno ospitato. Credo ci sia bisogno disperato d’ispirazione e pure di ottimismo. Perché il messaggio di Italiani d Frontiera non è mai: “Se hai una buona idea fuggi all’estero”, semmai “Vai per un periodo fuori dall’Italia, perché questo aiuta a capirne pregi, potenzialità e ostacoli da abbattere a cannonate”. Come dicevo, c’è davvero bisogno di una “Rivoluzione Culturale”. E Italiani di Frontiera spera di contribuire ad ispirarla. Raccontare storie non è soltanto utile, è anche divertente.

 

 

A cura di Nicole Cascione

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