Barcellona 9 Novembre. Il referendum che non c’è

 

Esco di casa e incontro la mia vicina quasi novantenne che abita all’ultimo piano. Arranca a fatica sugli scalini molto alti di questa palazzina modernista del secolo scorso, lei abita al sesto e ultimo piano. Ha la carta d’identità in mano, è andata a votare, penso io, e, infatti, mi racconta che arriva dalla scuola dietro l’angolo dove “c’è molta gente … moltissima”.

 

Scendo in strada e vado al seggio con il mio bigliettino o scheda elettorale “papeleta” in mano. Giro l’angolo e m’incontro con una fila ordinata, molto lunga composta da donne, uomini, bambini, molti giovani e anziani. Tutti sono assistiti dai volontari (circa 40.000 in tutta la Catalogna) che gestiscono (e molto bene) l’andamento delle “votazioni”. L’atmosfera è pacata, simpatica e sorridente …

 

Siamo al 9 novembre 2014, un giorno peculiare per i catalani. Contro tutte le aspettative e i molti ostacoli interposti dal Governo Centrale spagnolo, le urne di cartone bianco sono apparse negli istituti scolastici per permettere ai Catalani di votare in un referendum simbolico ed esprimere la loro opinione sulla spinosa questione territoriale che li riguarda.

 

 

Da circa un anno ormai il governo locale (Generalitat) presieduto da Artur Mas (CIU, partito di centro destra), supportato da una coalizione di forze politiche variegate a cui partecipano dalla sinistra repubblicana (ERC), ai centri sociali organizzati in un partito di base molto determinato (CUP), ai Verdi (IU), tentano di dare una risposta alle manifestazioni moltitudinarie che si susseguono da oltre 3 anni: i catalani (o almeno una consistente parte di essi) vogliono decidere del loro futuro politico attraverso un referendum.

 

Un referendum che, per ben due volte è stato bocciato negli ultimi mesi dal Tribunale Costituzionale spagnolo, su sollecitazione dell’attuale partito di governo (PP, partito popolare). Questa decisione ha trasformato quella che doveva essere una consultazione democratica in un sondaggio a larga scala, volto a individuare se la Catalogna dovrà continuare a far parte del congiunto spagnolo, come una delle 17 Comunità Autonome, o essere uno stato a sé indipendente dal resto della Spagna.

 

Dei circa 5,4 milioni d’iscritti al censo elettorale (che eccezionalmente includeva elettori dai sedici anni in su), circa 2.250.000 persone (secondo i dati di ANC e Ominum Cultura, le associazioni di cittadini promotrici dell’iniziativa) hanno partecipato alle votazioni. L’80,7% di questi “votanti” sceglierebbe oggi una Catalogna indipendente.

 

 

Difficile capire come si comporterebbe l’elettorato ufficiale in un referendum concordato con il Governo Centrale (per fare il quale sarebbe necessaria una revisione della Costituzione, cosa fino ad oggi giudicata “impossibile” dal Presidente Rajoy). I sondaggi pubblicati negli ultimi tempi darebbero un 50 e 50 a filo indipendentisti e unionisti o federalisti.

 

Fatto sta che Madrid dovrà capire come canalizzare questo vento indipendentista che soffia da Nord Est. E sarebbe auspicabile che non lo facesse con la “mala grazia” che ha caratterizzato le sue risposte politiche fino ad oggi (ovvero non politiche) facendo ricorso soltanto a un apparato giuridico.

 

 

All’indomani dei fatti, infatti, dalla Moncloa si è inteso soltanto un laconico “verificheremo se esistono responsabilità penali …”, espresso dal Ministro della Giustizia Rafel Català, che lascia cadere nel vuoto qualsiasi valutazione sul non-referendum catalano. Entusiasti, invece, i commenti in campo indipendentista: “Un successo totale”, dice Artur Mas alla chiusura dei seggi mettendo l’accento su “l’atteggiamento miope e intollerante” di Mariano Rajoy …

 

¿Y ahora Que?”, si chiedono in molti … ovvero “e ora che succede?”.

 

Il fermento è molto, le aspettative di una parte della popolazione anche e il movimento centrifugo che porterà non si sa dove “esiste” realmente. Staremo a vedere.

  

Paola Grieco