Intervista a Maurizio Molinari, corrispondente de “La Stampa” a New York City

 

Maurizio Molinari, giornalista professionista dal 1989 specializzato in politica estera e questioni internazionali, vive a New York dal 2001, dove lavora come corrispondente per il quotidiano “La Stampa”. Un’esperienza dura, un ritmo di vita frenetico, in una città come New York in cui “il ci­clo del­le news è no stop”, nonostante tutto però “Chi vi­ve a New York, an­che per un so­lo gior­no, non la ab­ban­do­na mai”.

 

Maurizio, qual è stato il percorso che ti ha por­ta­to nel­la Gran­de Me­la?

 

So­no na­to a Te­stac­cio, nel cuo­re del­la Ro­ma tra­ste­ve­ri­na, ho stu­dia­to a Ge­ru­sa­lem­me e Ox­ford, mi so­no lau­rea­to al­la Sa­pien­za in Let­te­re e Sto­ria, e i­ni­ziai a fa­re il gior­na­li­sta nel 1984 a "La Vo­ce Repubblicana". Da al­lo­ra ho cam­bia­to sei gior­na­li ed una doz­zi­na di di­ret­to­ri pri­ma di ar­ri­va­re nel 1997 a "La Stam­pa", che il 14 gen­naio 2001 mi as­se­gnò l’in­ca­ri­co di cor­ri­spon­den­te da New York, portandomi ad af­fron­ta­re una se­rie di sfi­de ed e­mo­zio­ni che con­ti­nua a rin­no­var­si, o­gni sin­go­lo gior­no.

 

C’è mol­ta dif­fe­ren­za tra l’es­se­re gior­na­li­sti in I­ta­lia e l’es­ser­lo ne­gli Sta­ti U­ni­ti?

 

No, un cro­ni­sta è un cro­ni­sta o­vun­que. Ci si può tro­va­re fra le ma­ce­rie di Hai­ti, sot­to il fuo­co a Mogadiscio, nel Do­me di New Or­leans as­se­dia­ta da Ka­tri­na, nel­la West Wing a col­lo­quio con l’uo­mo più po­ten­te del mon­do, den­tro Mon­te­ci­to­rio o in un di­ner di Des Moi­nes, ma il la­vo­ro re­sta lo stes­so: cercare le no­ti­zie, a­scol­ta­re sen­za pre­giu­di­zi ciò che ti vie­ne det­to, se­pa­ra­re fat­ti e o­pi­nio­ni, di­mo­stra­re conti­nua­men­te u­mil­tà da­van­ti a fat­ti, fon­ti e col­le­ghi.

 

La­vo­ri an­che per te­sta­te gior­na­li­sti­che newyorchesi?

 

Ho un con­trat­to di e­sclu­si­va con La Stam­pa. Al­cu­ne tv, co­me Pbs e Cnn, mi in­vi­ta­no a vol­te per commen­ta­re fat­ti di po­li­ti­ca e­ste­ra co­sì co­me può ca­pi­ta­re che Fo­reign Po­li­cy o il New York Ti­mes mi chie­da­no dei bre­vi in­ter­ven­ti.

 

Qua­li so­no le dif­fe­ren­ze fra una re­da­zio­ne i­ta­lia­na e una ame­ri­ca­na?

 

La­vo­ra­re con tv e gior­na­li ame­ri­ca­ni è un’e­spe­rien­za du­ra per­ché ci si e­spo­ne al fact chec­king: o­gni cosa che si di­ce o si scri­ve de­ve es­se­re di­mo­stra­ta, pro­va­ta, a­ve­re del­le ba­si so­li­de. Il pro­ces­so di editing è lun­go e de­li­ca­to, l’E­di­tor – o il Pro­du­cer nel ca­so del­le tv – di­ven­ta qua­si un co-au­to­re per­ché o­gni no­zio­ne scrit­ta o pro­nun­cia­ta è sta­ta pri­ma va­glia­ta as­sie­me a lui.

 

 

Quan­do e per­ché hai de­ci­so di tra­sfe­rir­ti a New York?

 

E’ sta­ta una de­ci­sio­ne de "La Stam­pa". Nel 2000 ero cor­ri­spon­den­te da Bru­xel­les. Il gior­na­le mi chie­se di an­da­re a New York e co­sì fe­ci.

 

Ti sei tra­sfe­ri­to in­sie­me al­la tua fa­mi­glia? E quest’ultima co­me ha af­fron­ta­to il trasferimento?

 

So­no spo­sa­to con Mi­col dal 1994. E’ sta­ta una part­ner in­di­spen­sa­bi­le, in­fa­ti­ca­bi­le. Il dop­pio trasferimen­to, pri­ma da Ro­ma a Bru­xel­les e poi da Bru­xel­les a New York, sa­reb­be sta­to im­pos­si­bi­le sen­za di lei. La ca­pa­ci­tà di la­vo­ra­re na­sce dal­la so­li­di­tà del­la fa­mi­glia, del­le ra­di­ci, dei va­lo­ri. Ar­ri­va­ti qui a New York ab­bia­mo a­vu­to quat­tro fi­gli e ciò ci ha le­ga­to al­la cit­tà an­co­ra di più.

 

Co­me si svol­ge una tua gior­na­ta ti­po?

 

E’ se­gna­ta dal­la so­vrap­po­si­zio­ne fra il fu­so o­ra­rio di New York e quel­lo dell’I­ta­lia, per­ché un corrispondente de­ve ri­spet­ta­re i rit­mi del­la re­da­zio­ne. Dun­que sve­glia al­le 5.30-6.00 del mat­ti­no per es­se­re o­pe­ra­ti­vo a pie­no re­gi­me al­le 6.30, la­vo­ran­do sen­za in­ter­ru­zio­ne fi­no al­la chiu­su­ra dell’e­di­zio­ne quo­ti­dia­na, al­le 16 di New York, per poi i­ni­zia­re a la­vo­ra­re per l’e­di­zio­ne dell’in­do­ma­ni. Sen­za con­ta­re che il web ha ag­giun­to una di­men­sio­ne nuo­va del la­vo­ro: la ri­cer­ca di sto­rie, fat­ti, im­ma­gi­ni e vi­deo, è i­nin­ter­rot­ta. Di fat­to si la­vo­ra sem­pre. Il se­gre­to è an­da­re a let­to pre­sto, ver­so le 22 di New York. An­che se la ve­ri­tà è che o­gni vol­ta che mi ad­dor­men­to pen­so al­le co­se che po­te­vo fa­re e re­sta­no in sospeso. An­che que­sta è New York: una cit­tà do­ve il ci­clo del­le news è no stop.

 

Gli ame­ri­ca­ni co­me con­si­de­ra­no at­tual­men­te l’I­ta­lia?

 

Ne a­do­ra­no l’ar­te e il ci­bo, ci in­vi­dia­no il gu­sto, la fan­ta­sia, la dut­ti­li­tà, ap­pe­na pos­so­no ven­go­no a visitarla da tu­ri­sti o a vi­ver­ci da pen­sio­na­ti e i rap­por­ti di al­lean­za re­sta­no so­li­di a pre­scin­de­re dall’orientamento po­li­ti­co dei ri­spet­ti­vi go­ver­ni. Ma gli in­ve­sti­to­ri pre­fe­ri­sco­no al­tri Pae­si eu­ro­pei, per­ché ci con­si­de­ra­no una na­zio­ne a ri­schio a cau­sa di cor­ru­zio­ne, cri­mi­na­li­tà or­ga­niz­za­ta, de­bo­lez­za del­lo Sta­to di di­rit­to, as­sen­za di ma­na­ger e ca­ren­za di tec­no­lo­gie.

 

Gli Sta­ti U­ni­ti so­no da sem­pre con­si­de­ra­ti il mo­to­re dell’e­co­no­mia mon­dia­le. Com’è l’at­tua­le si­tua­zio­ne e­co­no­mi­ca?

 

Gli Sta­ti U­ni­ti stan­no at­tra­ver­san­do una fa­se di cre­sci­ta de­bo­le. Ma­ni­fat­tu­ra e im­mo­bi­lia­re, i due set­to­ri più col­pi­ti dal­la cri­si del 2008, si stan­no ri­pren­den­do, ma len­ta­men­te. A cre­sce­re mol­to so­no in­ve­ce le In­for­ma­tion Tec­no­lo­gies. Ora rap­pre­sen­ta­no il 37 per cen­to del pil Usa, quan­do ar­ri­ve­ran­no al 51 avremo un nuo­vo boom e­co­no­mi­co.

 

Co­me ve­do­no il lo­ro fu­tu­ro le fa­mi­glie ame­ri­ca­ne?

 

Con in­cer­tez­za per­ché le fe­ri­te cau­sa­te dal­la cri­si fi­nan­zia­ria e dal­la re­ces­sio­ne so­no pro­fon­de. La povertà è cre­sciu­ta, la di­soc­cu­pa­zio­ne re­sta a li­vel­li mol­to al­ti, mi­lio­ni di per­so­ne han­no per­so ca­sa, lavoro, au­to­mo­bi­li, in­ve­sti­men­ti in un do­mi­no-kil­ler, che ha fiac­ca­to la clas­se me­dia. Ser­vi­rà tem­po af­fin­ché l’Ame­ri­ca si ri­sol­le­vi del tut­to, ma ta­le pro­ces­so è già i­ni­zia­to.

 

Qua­li so­no le dif­fe­ren­ze tra il mo­do i­ta­lia­no e quel­lo sta­tu­ni­ten­se di af­fron­ta­re e ve­nir fuo­ri da un mo­men­to co­sì cri­ti­co per l’e­co­no­mia mon­dia­le?

 

La ri­sor­sa più im­por­tan­te che que­sta na­zio­ne possiede è la ca­pa­ci­tà di ri­sol­le­var­si, ri­co­struir­si, rilanciarsi. E’ la cul­tu­ra del "co­me­back": rial­zar­si e vin­ce­re. Na­sce dall’a­ni­mo di un po­po­lo di pio­nie­ri, co­lo­ni ed e­splo­ra­to­ri, che sen­za ta­le qua­li­tà non sa­reb­be mai riu­sci­to a do­ma­re un con­ti­nen­te co­me il Nord­ame­ri­ca.

 

Co­sa ti man­ca mag­gior­men­te del tuo Pae­se? E co­sa, in­ve­ce, sei con­ten­to di es­ser­ti la­scia­to al­le spal­le?

 

Vi­via­mo in un mon­do glo­ba­le, ri­sie­de­re a New York non si­gni­fi­ca più es­se­re di­stan­ti da Ro­ma o To­ri­no. Le nuo­ve tec­no­lo­gie ci con­sen­to­no di es­se­re cit­ta­di­ni di più na­zio­ni, ap­par­te­ne­re a po­po­li di­ver­si, integrare più i­den­ti­tà e a­bi­tu­di­ni, a di­spet­to del­la geo­gra­fia e del fu­so o­ra­rio. La sfi­da è a­ve­re la dut­ti­li­tà per­so­na­le e cul­tu­ra­le per riu­sci­re ad af­fron­ta­re que­sta op­por­tu­ni­tà.

 

Pen­si di tor­na­re in I­ta­lia pri­ma o poi?

 

Chi vi­ve a New York, an­che per un so­lo gior­no, non la ab­ban­do­na mai.

 

twitter @maumol

Contatto fb: www.facebook.com/maurizio.molinari?ref=ts&fref=ts 

 

A cura di Nicole Cascione