La rosa nel deserto

 

Ciao nonnina,

 

oggi a Darwin è una splendida giornata. Il sole risplende alto nel cielo azzurrissimo, nessuna nuvola all’orizzonte.

 

Ho impiegato 2 settimane per arrivare qua, prendendo un treno da Melbourne per arrivare ad Adelaide e macinando più di 4000 kilometri in macchina lungo la Stuart Highway, l’autostrada che attraversa questo immenso paese da sud a nord.  Il paesaggio è cambiato notevolmente, dagli alberi di eucalipto e verdi colline del sud si passa alle distese aspre e selvagge di sabbia rossa e cespugli spinosi del centro, fino alle cascate dei parchi nazionali del nord circondate da foreste inospitali e umide.  E’ un tuffo negli spazi infiniti dell’outback che simboleggia la vera essenza dell’Australia, un’immensità di silenzio e perdizione che si instaura prepotentemente davanti a noi. Di tanto in tanto qualche emù corre a fianco alla nostra macchina o attraversa la strada, i canguri e i wallabies saltellano senza meta e le grandi lucertole si arrampicano sulle rocce per assorbire tutto il calore possibile.

Quanto era brutto il tempo quel sabato di 25 giorni fa, quando il telefono ha squillato ripetutamente prima che potessi vederlo e fare la chiamata più triste della mia vita.

 

Non sono riuscita a parlare, tutto ciò che sono riuscita a dire è stato un lungo “noo”.

 

Quanto freddo faceva mentre a mezzanotte inoltrata rientravo verso casa e le gocce di pioggia si mischiavano alle lacrime del mio viso. Le ho piante tutte fino ad esaurirle alle 4 del mattino. Te ne sei andata via portandoti dietro il mio sorriso; ed ora pensandoti ancora mi è difficile credere alla tua mancanza. Non potevo restare in quella Melbourne che fino a quella mattina amavo ma che ormai odiavo, dovevo scappare il più lontano possibile dalla folla chiassosa della città e così sono andata nel deserto a pensare.

 

Qua si ha tutto il tempo, le giornate scorrono lente, il paesaggio diventa monotono, aspro cattivo e solitario, le carcasse degli animali costeggiano la strada, gli insetti ti inseguono e ti torturano, il calore ti rende rosso il viso e ti disidrata continuamente mentre nel cielo grandi aquile perlustrano il terreno alla ricerca di sfortunate prede: il deserto non perdona niente e nessuno. Il sole al tramonto muore sempre nello stesso punto all’orizzonte per poi rinascere inondato dai colori dell’alba, colori forti e intensi delle gamme del rosso e del giallo che sembrano farti vedere il cielo per la prima volta. Questi spazi così aperti raccontano storie di esplorazioni e riflettono lo spirito pionieristico e l’identità unica dell’Australia. L’uomo è una presenza rara, bisogna sempre gettare un occhio al livello della benzina e ai cartelli che ti avvisano “next petrol station 390km”, si sfreccia a 100-130 km all’ora, le curve quasi non esistono, è un susseguirsi di resti di città legate alla corsa all’oro e poi abbandonate dal tempo alla polvere e al vento.

 

Viaggiare nelle strade dell’outback significa lasciare per un po’ la civiltà, scoprire che l’orologio non ha importanza, i telefonini sono ormai senza batteria in un angolo dello zaino e l’acqua non si può sprecare per lavarsi ma conservare per dissetarsi e cucinare, significa riscoprire che la pazienza è una grande virtù e la solitudine una grande compagna di riflessioni. Le terre che si attraversano sono intrise di sacralità aborigena e leggende come Ayers Rock noto in lingua aborigena come Uluru, il grande monolite rosso venerato ancora dopo millenni: i luoghi che si scoprono e attraversano sono la conquista del lungo viaggio. Non ti sarebbe piaciuto il deserto, ne sono convinta, odiavi il caldo soffocante e la siccità che spesso affligge le nostre terre, tu amavi il verde e i fiori, come quello che racchiudeva il tuo nome. Una volta ti chiesi come mai ti avessero chiamato Zaira. Purtroppo non mi ricordo la risposta, chissà se sapevi che è un nome di origine africana che significa “rosa”, il fiore che amavi tanto e coltivavi in giardino. Le tue rose non assomigliavano per niente a quelle perfette dei libri o dei giardini delle ricche ville, erano scarmigliate, disordinate, divorate dagli insetti, ma inondavano l’aria di un buon profumo e ti mettevano di buon umore.

Qualche settimana fa qualcuno senza saperlo mi ha regalato un mazzo di rose, mentre dall’altra parte del mondo iniziavano i tuoi funerali. E’ un po’ quelle rose mi hanno messo di buon umore, ho pensato che fosse uno scherzo del destino, che fossi tu a dirmi “Hey, guarda che io ci sono sempre, sono qua davanti a te”. Me ne sono presa cura sino al giorno della partenza, quando ho scelto la più bella da portare con me in questo viaggio. Quella rosa mi ha accompagnato per 2500 kilometri, fino a quando non ho trovato un posto che mi piacesse abbastanza per poterla piantare sperando che cresca in queste terre così difficili e aspre in modo da farti vedere un po’ di mondo e avventure. Riposi con lei nella pace delle terre della tribù di Adnyamathanha protetta dalle sue genti e dagli spiriti dei loro antenati.

Perché te ne sei andata via? Ora ti chiedo solo di aiutarmi a spiegarlo a quella parte di me, che non se ne vuole ancora fare una ragione e che cocciutamente non vuole crederci. Si sono spenti i tuoi occhi che tante cose hanno visto e vissuto, quelle gambe gonfie e malate che tanti cammini hanno affrontato e che ancora ti ostinavi a usare, quel viso pieno di rughe che sembrava burbero e scontroso ma che racchiudeva una grande dolcezza e debolezza. Ti sento nel silenzio della sera, nel vento che ogni tanto soffia in queste terre sconfinate, ma come l’aria non ti posso toccare e al tuo posto c’è solo il mio cuore gonfio di dolore che ancora ti immagina in quella poltrona vecchia e imbottita di gomma piuma ad aspettarmi davanti al televisore. Non so dove tu sia, non so cosa sia rimasto di te, non so se vedi e senti il dolore delle persone che ti amavano, e che per sempre ti ameranno.

 

Chissà cosa pensavi realmente della mia vita, così diversa rispetto al tuo ristretto mondo fatto di casa e religione. E di tutti quei regali che ti portavo dai miei viaggi? Ti ricordi ancora di quel guanto da forno rosa di Minnie che ti avevo portato dall’Inghilterra?Ti avevo scattato una foto perché mentre lo indossavi la tua faccia sorpresa era proprio buffa, quando la guardo ancora rido. Ogni volta mi dicevi di tornare a casa, che ti mancavo e mi volevi vicina a te. Ora sono io a dirtelo nonnina, ti voglio qua vicino a me oggi, domani e sempre. Quanto è difficile non pensarti, pensar di dover continuare senza di te dopo aver passato 30 anni di vita insieme e quanto sarà difficile tornare in quella casa vuota della tua presenza, abituarsi alla mancanza di quella risata chiassosa, a quella camminata goffa e pesante, a quella rudezza dei modi e bontà dello spirito. Ti avrei voluto raccontare tante cose, avrei voluto invertire il ruolo di cantastorie nonna/nipote perché ora ho un bagaglio pieno di avventure da raccontare, ma tu non hai avuto pazienza, sei voluta partire lo stesso giorno in cui Armstrong ha lasciato questa terra, chissà se vi siete incontrati e se ti ha portata con sé nel suo ultimo viaggio sulla luna. Questi luoghi solitari e dimenticati da Dio mi aiutano a capire, a fermarmi a pensare quanto ogni giorno di questa vita sia un dono immenso e irripetibile, quanto tutto ciò che diamo per scontato un giorno potrebbe sparire per sempre, quanto bisogna godere del potere della giovinezza perché quando meno ce lo si aspetta questa svanisce portandosi dietro ogni spensierato momento, non aspettare il domani per essere felici perché non c’è momento migliore del presente per esserlo.

 

La felicità non è una meta da raggiungere ma un lungo viaggio dove la nostra forza d’animo e determinatezza ci aiutano a superare ogni nuovo traguardo e iniziare una nuova partenza. La pace dello spirito è nella gioia di vivere e non esiste gioia più grande del sentirsi vivo, giorno per giorno, farsi trasportare da nuove emozioni, non lasciarsi cadere nella sconfitta e nel dolore e andare avanti anche quando tutto ti spinge a lasciare perdere.

 

Chi mi dirà adesso amore di nonna, chi mi comprerà i panini alla ricotta, chi si arrabbierà con il gatto parlandogli in sardo e chi mi offrirà il gelato sia nelle calde giornate estive che nelle gelide giornate invernali? Me lo offrivi ogni volta che entravo a casa tua ma io non lo volevo mai, eppure è stata l’unica cosa che sono riuscita a mandare giù sebbene il giorno dopo quella terribile notizia facesse freddo e piovesse.

 

Mi manchi nonnina, mi manchi immensamente e ogni giorno di più. Il tempo guarirà questa ferita, ma ci sarà sempre una cicatrice segnata dalla nostalgia e dal tuo ricordo. Piantando quella rosa ti ho salutato.

 

Ciao amore, adesso porterò sempre una rosa con me ad accompagnare i miei viaggi.

 

Dedicato a mia nonna Zaira Cocco. Grazie nonnina, sei stata la migliore nonna che potessi desiderare.

 Silvia Muscas

 

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