Inseguendo gli spettri dell’Ottocento parigino

 

Succede spesso, a Parigi, di fare strani sogni: paraventi d’ombra che schiudono paesaggi stridenti, dissonanti, percorsi da folle sconosciute, attraversati da correnti insolite. Capita spesso di svegliarsi nel cuore della notte col cervello letteralmente in fiamme: le linee della metro che s’intersecano a formare cortocircuiti mentali, il luccicare sinistro della torre nel guanto buio del cielo, il trotto di carrozze in corsa che si spegne nel primo frullare d’ali degli uccelli fra i tetti.

 

Tutto questo succede, e molto altro, perché poche sono le città al mondo che sconfinano, quanto Parigi, nella sfera dell’allucinazione pura, della deriva psichica, del delirio a occhi aperti. E la passeggiata che vi propongo quest’oggi potremmo definirla un vero e proprio inseguimento di spettri, una caccia impavida a spiriti lontani, che tuttavia tornano, risuonano, permangono.

 

 

Qualche fermata di metro per incontrare il primo dei nostri ospiti: l’arrêt è Repubblique, e il luogo che stiamo cercando è una casa situata al 42 del boulevard che vi affluisce, un vialone costeggiato da trattorie e ristoranti pregiati, ma che un tempo, all’epoca in cui ci stiamo violentemente proiettando, rispondeva al grave appellativo di boulevard du Crime. Vi approdava la rissosa marmaglia del non lontano faubourg Saint-Antoine, e non erano infrequenti le risse, gli scippi, gli accoltellamenti, gli assassinii. Qui, in quello che oggi la topografia urbanistica ha ribattezzato boulevard du Temple, nell’autunno del 1856 viene a vivere un uomo, uno scrittore non ancora famoso, in compagnia dell’anziana madre. Un tipo ossessivo, maniacale, nevrotico e perfezionista, che firma i suoi scritti col nome di battesimo: Gustave Flaubert.

 

Occuperanno due piani dello stabile affacciato sulla strada. La madre il secondo, lui quello di sopra, comprendente due vaste camere che danno sul boulevard, una sala da pranzo per ricevere gli ospiti, una cucina con vista sulla corte e toilette annessa, seguita da una piccola uscita di servizio. L’appartamento non è costoso: nonostante la precarietà del quartiere si trova a due passi dal centro e consente all’autore la pace e gli spazi necessari alla creazione perché è qui che forse il più importante, e comunque il più coraggioso dei romanzieri del secolo, darà voce e forma alla più celebre eroina della letteratura mondiale: Madame Emma Bovary. Questo nome, che correrà presto sulle bocche di tutta Parigi, che farà impallidire le educande inoculando loro il virus del sogno e dell’insubordinazione, questo nome prezioso e ambiguo, che per molti sarà una carezza, per altri uno sputo in fronte, e che spingerà l’autore davanti alla sesta camera correzionale del tribunale di Francia, è inevitabilmente, innegabilmente legato ai luoghi della sua stessa genesi: nessuna figura di donna, nessuna creatura evocata dalle pagine di un romanzo incarna più di Emma l’ideale estetico contraddittorio e umorale che alimenta il rapporto tra lo scrittore e la città. Emma è Parigi, forse proprio perché Parigi le viene negata, e può solo viverla da lontano, dall’esilio della sua sonnolenta provincia, nell’universo pulsante e tragico delle palpebre abbassate, del cupo abisso interiore, ridisegnandola sul calco delle aspirazioni inespresse, dei desideri negati, delle speranze infrante, della sua solitudine esistenziale.

 

 

Tra gli ospiti di casa Flaubert, quello più fisso, oltre all’affezionato allievo-figlio Maupassant, è la poetessa Louise Colet, figura fondamentale nella vita affettiva dello scrittore, ma pure lei provata dalle forti asperità del temperamento dell’uomo, dalle sue costanti mancanze di coraggio, dai suoi repentini pentimenti, dall’oscillazione del suo umore, dall’insoddisfazione degli impegni assunti e mai mantenuti, dall’odio improvviso che si mescola all’amore, dal pianto e dal riso che avvelenano i giorni, dalle miserie che abitano la loro relazione malferma. Louise è bella, giovane e donna di talento: aspetto che complica notevolmente le cose. Per giunta ha carattere, come rivelano gli accenti fieri delle lettere che spedisce al suo algido amante. Non teme di vagare per la strade senza accompagnatore, anche a tarda notte, né ha paura dei pettegolezzi pur sapendo di suscitarne, e parecchi, fino al punto di ritrovarsi nella rete perversa delle attenzioni di Alphonse Karr, linguacciuto cronista delle gazzette cittadine, troppo poco impegnato nei fatti propri per lasciarsi sfuggire quelli di Madame. Non sono poche le volte in cui gli affari di letto di Louise Colet hanno nutrito infatti i pretestuosi articoli di Karr.

 

Spingiamoci adesso un po’ più a nord, fino al 36 di rue Vivienne, perché è qui che si verifica l’aneddoto incredibile che in una sera d’inverno lega i due. Monsieur Karr risiede al sesto piano del distinto palazzotto che contempla la rue. Ci troviamo a pochi passi dai Grands Boulevards, cuore della vitalità mondana e commerciale di Parigi. La donna che attende davanti al portone, velata di nero per rendersi irriconoscibile, è proprio lei, Louise Colet, provata dai continui attacchi giornalistici con cui il vile ha reso pubblica la sua liaison con Victor Cousin. Il pomeriggio precipita ingrigendo oltre i tetti: il giorno è stato battuto da acqua e vento. Tuttavia Louise non arretra nei suoi intenti, ritta come una statua, il pugnale dalla lama sottile nascosto nelle balze della mantella. Infine l’uomo giunge, l’impettito Alphonse Karr di ritorno alla propria dimora. E’ un attimo, i due spettri s’intercettano, qualche parola di riconoscimento che si leva nell’atrio vuoto dell’edificio, il portone che si spalanca, gli occhi duri di Louise, quelli increduli e atterriti di lui, il pugnale giustiziere che penetra nelle carni flaccide di Karr. Poi il sangue, le urla del vicinato, l’arrivo del medico che riuscirà a tamponare l’emorragia, la fuga di una giovane nell’oscurità che qualcuno giurerebbe di aver riconosciuto. Il ferimento non ucciderà l’incauto giornalista, ma gli lascerà l’omaggio del pugnale incriminato, che Karr avrà l’ardire di esporre in salotto con tanto di provocatoria didascalia: Con riconoscenza, donato da Madame Louise Colet ad Alphonse Karr.

 

 

Louise, un po’ come Emma coi suoi sogni impossibili e necessari, sancisce in maniera ufficiale la fine dell’Ottocento: la rivendicazione che la spinge al suo rischiosissimo gesto è già quella di una donna pienamente moderna, audace, disposta a riprendersi da sé ciò che la legge non le garantisce in termini di rispetto, di dignità, di salvaguardia morale dallo strapotere del maschilismo. Oggi che il puro spettro si sostituisce alla memoria della donna in carne e ossa, mi sembra quasi di sentirlo vibrare, fremere, palpitare nei silenzi notturni dei Passages, o tra brulicanti alveari di passanti in corsa.

 

Flaubert, Emma, Louise: tutte facce del medesimo prisma, rifrazioni intense della stessa luce, quella che ci guida all’interno di un altro luogo ancora tipicamente ottocentesco, ma già aperto a nuovi, eccentrici incanti. Mi riferisco alla Galerie Vivienne, non troppo lontana dall’omonima via. Questa volta il tempo sbriciola sotto i passi di un altro spirito eccellente: Hector Berlioz, il compositore ormai celebre, che stiamo inseguendo attraverso l’inferno del temporale. Hector abita a pochi isolati di distanza, è venuto a piedi, e come sempre ha scordato di prendere l’ombrello. Si muove avvolto nella lunga redingote scura, l’impeccabile chapeau sollevato in fronte, la pesane sciarpa di lana al collo. Avanza a passi leggeri ma decisi, che sono insieme passi d’uomo e di felino, come se attendesse pure lui dal cielo tormentato chissà quale nuova rivelazione per la sua arte. Scivola in galleria percorrendone il corridoio laterale, stringe i panni sul petto scavato dalla malattia, e per un attimo ha la sensazione che tutto stia per mettersi a girare. Ha paura Berlioz, sono tempi bui, e i suoni che cominciano a giungere da tutte le direzioni lo atterriscono: se nascondessero un’imboscata? una rivolta, la formazione di una barricata? Poi li vede, incredulo, e commosso come un bambino su un giro di giostra: sono dieci, cento, mille sconosciuti che si sono messi a intonare le note che lui ha scritto, che lui per primo ha musicato nel silenzio notturno del suo studio, quelle note che gli sono costate sangue, salute, solitudine, dolore. Ha scritto per loro, per tutti, per ciascuno degli uomini e delle donne che compongono il popolo di Parigi, e il popolo di Parigi, quest’oggi, sente il bisogno di rendere omaggio all’artista generoso, al padre morale, a colui che ha dato alla Francia una voce per cantare le sue Rivoluzioni. La commozione è troppa: le vibrazioni giungono fino al cuore, Berlioz non regge, cade, perde i sensi. La stessa notte scriverà che tutta quella gente, accorsa per celebrare con la gioia negli occhi la sua musica, gli aveva fatto pensare, chissà perché, a tanti meravigliosi uccelli sui rami, frustati e impietriti dal lampeggiare della tempesta. Con i moti, col sangue delle ribellioni, col furore della speranza che divampa negli animi un sentire nuovo si fa strada chiudendo un capitolo di sofferenze e d’incertezza. Cosa rimane di quel tempo perduto?

 

 

La magia silenziosa che ritrovo percorrendo queste gallerie sontuose nel cuore della capitale, il fasto polveroso dei bustini di pizzo, delle bambole semoventi, dei manichini di cartongesso, delle lampade di carta, delle parrucche luccicanti, dei fanali, dei paraventi colorati, delle loro vetrine impolverate. E’ qui che si raccolgono gli spettri dell’Ottocento per darci un sincero benvenuto.

 

Luigi La Rosa