Senza un soldo a Parigi, storie di uomini e donne che hanno cambiato il mondo

 

 

Parigi. Prima settimana. Con la pioggia mi raggiunge pure la sua malinconia, adesso credo di cominciare a conoscerla bene, questa materia grigia quanto impalpabile, nutrimento che miscela insieme felicità e languore, tenerezza ed ennui, fuoco e piacere oscuro. E’ un sentimento che riesce puntualmente a sorprendermi, davanti al quale sei praticamente nudo, disarmato. Come un bambino. O un poeta.

 

Da giorni medito sulla povertà, sulle difficoltà a volte insormontabili che la maggior parte degli artisti ha dovuto affrontare prima di affermarsi perché è questo l’humus, il terreno prodigioso su cui è germogliata l’impressionante vitalità creativa che ha fatto di questa esuberante città una delle capitali indiscusse della cultura nel mondo. Come piante tenaci questi uomini e donne di genio sono sopravvissuti anteponendo l’ostinazione, il talento, la passione a tutto, talvolta persino alla propria sussistenza, scavalcando ostacoli come miseria, guerre, carestie, malattie, traumi psichici e difficoltà per noi neppure vagamente ipotizzabili. E le radici, fortificate da tale volontà di ferro, hanno generato magnifici frutti, succulenti doni d’immortalità. Non fatico a immaginare il più che borghese quinto arrondissement dei giorni nostri spogliato delle sue attuali comodità, battuto dai venti gelidi d’inizio secolo, crepato nei marciapiedi melmosi di fango, segatura, piscio e nevischio, nebbioso, più malinconico del solito e profondamente inospitale: non stento a rivedere le stesse strade che tutte le mattine percorro nell’uscire da casa denudate del loro odierno benessere, deprivate, azzerate, ridotte all’osso di semplici scarnificate tracce del sopravvivere. Seguiamole, partendo come sempre dall’Île, che in queste peregrinazioni letterarie rappresenta per me una sorta di bussola insostituibile e arrampichiamoci con un pizzico di fatica nei polpacci lungo l’ormai nota rue du Cardinal Lemoine. Cos’è oggi l’antica via che portava alla malfamata piazzetta della Contrescarpe se non un susseguirsi di atelier, saloni alla moda, gallerie d’arte, librerie, un ufficio postate, una concessionaria automobilistica e poi una trafila di deliziosi ristorantini etnici? 

 

 

Tutt’altro da quello che dovette apparire al forbito monsieur James Joyce, questo elegante irlandese biondo dall’aria snob, giunto a Parigi nel 1920 con un’intera famiglia da sfamare e le bozze incomplete dell’Ulisse, romanzo sino ad allora considerato unanimemente un fiasco. Pornografico: questo il verdetto categorico dell’intransigente Virginia Woolf. Offensivo per le donne: parere di Gertrude Stein. Solo per citare alcune delle eminenti voci critiche del tempo. Joyce fugge dall’Irlanda e dall’Inghilterra come fuggono gli scrittori veri: con un manoscritto in valigia e un’unica fatale necessità: farcela o morire. Mi arrampico dietro al suo veloce fantasma fino al numero 71 della via: un alto cancello verde chiude l’accesso a una salita costellata da entrambi i lati da bassi portoncini di legno. Ma qui la targa posta sul lato destro della facciata non lascia dubbi: James Joyce, écrivain britannique d’origine irlandaise accueilli ici son roman Ulysse, ouvrage majeur de la litterature du vingtième siècle. E non stupisce che la targa sia accostata a quella di un altro noto autore francese: Valery Larbaud, colui che farà giungere l’opera travagliata di Joyce tra le mani della donna e dell’editrice più audace di ogni tempo: Sylvia Beach.

 

 

Siamo alla svolta di un destino: con l’uscita del libro Joyce passerà dai penosi pomeriggi della Contrescarpe alle comode riscaldate poltrone della brasserie Lipp in Saint-Germain des Près, mentre il suo colossale romanzo comincerà il giro del mondo e il conto in banca dello scrittore leviterà fino a farne uno degli uomini più in vista della capitale. Ma è più struggente un’altra povertà iniziale, perché più vera, più carnale, più inestricabilmente legata all’innocenza degli inizi. Quella di un non meno grande, ma ancora sconosciuto ventiduenne di nome Ernest Hemingway, approdato a Parigi insieme alla moglie Hadley Richardson nell’autunno del 1921.

 

 

Nessuno darebbe credito a questo prestante figlio dell’America lontana: bello, con l’acciaio del dolore e della fierezza dentro gli occhi grandi, accompagnato da una ragazza che l’adora ma che lui non ricambierà con la medesima intensità. E’ al 75 (soli quattro numeri civici dalla casa di Joyce) che i due andranno ad abitare, in un edificio scomodo e privo d’ascensore. Unica risorsa economica del giovane scrittore: gli assegni settimanali del Toronto Star, il giornale che l’ha spedito in Europa in qualità di cronista e recensore sportivo. Ma ben presto diviene chiaro che quei pochi soldi non bastano neppure a colmare le semplici spese per il riscaldamento invernale: Hemingway si avventura di mattina presto, calpesta il selciato pieno di foglie morte come un randagio rabbioso, fruga nella melma per raccattare scorze di castagne e rami secchi, nella speranza di riuscire ad accendere il camino delle poche stanze che lui e Hadley condividono già da qualche mese. 

 

 

E’ esattamente in quella che adesso corrisponde all’iperturistica e alberata piazzetta della Contrescarpe che trascorrerà le giornate a bere e a scrivere, diviso tra i due bistrot che ancora oggi si fronteggiano, nella faticosa ambizione di sottoporre i suoi racconti alla più autoritaria e inflessibile delle mecenati parigine: madame Gertrude Stein. E quando la sognante coppia dei primi mesi si trasformerà in trio, perché la bella moglie di Hemingway avrà scoperto di essere incinta del loro primo figlio, il giudizio di Gertrude si farà duro, inequivocabile: Via, vattene subito via da Parigi, da questa miseria, adesso sei padre, hai delle responsabilità, e Parigi non è luogo in cui dar da mangiare a un bambino appena nato e bisognoso di cure.  Addolorato, disilluso, scalfito nell’intimo ma non vinto, Ernest deve fare i conti con le amare imposizioni della realtà : obbedirà, andrà via da Parigi, ma solo per recuperare tempo e danari, e poi finalmente tornare, tornare per non andare più via, perché da questa città, sirena o demone che sia, non si fugge, e una volta suo sei perduto. Per sempre.

 

 

C’è chi la povertà invece non l’ha conosciuta affatto, o l’ha temuta meno, perché più preso dalle preoccupazioni dello spirito e dalle diverse condizioni economiche di provenienza, ed è René Descartes, italianizzato in Cartesio, altro vero e proprio gigante del quartiere, vissuto al centro della candida rue Rollin, la viuzza che fronteggia l’edificio di Hemingway e pure essa a solo qualche metro di distanza dalla Contrescarpe.  Sotto la pioggia leggera di un martedì pomeriggio (avrete capito che detesto uscire con l’ombrello) raggiungo quello che la leggenda designerebbe come lo storico portone originale della dimora: effettivamente l’aria invecchiata ce l’ha, con una vasta stella appena stilizzata sul legno usurato di quello che oggi è diventato l’accesso a un campus, posta lì quasi a delineare la valenza internazionale del sistema cartesiano.

 

«Trattenendomi, com’è mia abitudine, con un piede in un paese e uno nell’altro, trovo in questa condizione libera la mia felicità.»

 

La dichiarazione, riportata da un’orribile targa in similvetro, è datata 1648, ed è tratta da una missiva che il filosofo spedisce all’amica principessa Elisabetta di Boemia. Libertà è questo sistematico, ideologico, deliberato, esistenziale rifiuto di radici e frontiere, e non sorprende che venga da un uomo vissuto quasi cinque secoli addietro, considerata la grandezza del soggetto in questione. 

 

 

La povertà a Parigi ha scritto pagine toccanti e dolorose, forse le più sincere e commoventi tra quelle delle biografie degli artisti finiti in questa città. Portatevi adesso al centro della piazzetta della Contrescarpe – giungeteci, se possibile, prima di sera, per godere dei magnifici massaggi alla schiena che volontari generosi sono disposti a offrire ai passanti in cambio di qualche spicciolo, o prima che arrivino i bellissimi suonatori africani, coi loro tonanti strumenti a percussione e gli spettacoli di danze acrobatiche -, percorrete per intero la circonferenza del giardinetto che circonda la fontana zampillante, e sollevate lo sguardo fino al primo piano del palazzotto che attualmente ospita un minuscolo ma comodo supermercato aperto quasi tutta la notte.

 

Troverete un’insegna abbrunita dagli anni, le cui immagini ancora visibili sono sovrapposte dall’antica iscrizione: «Au nègre joyeux». In quello che era allora un frequentato ristorante dell’epoca – siamo poco prima degli anni Trenta – vi giunge un lavapiatti d’eccezione, un individuo cupo e silenzioso, puntigliosamente riflessivo, che lavora duro e parla poco, nel suo ancora immaturo francese, un tipo che sembra avere la testa sempre presa dal ronzio incomprensibile di chissà quali pensieri. Pure lui, George Orwell, come tanti è venuto per scrivere, per amare, per respirare Parigi. Forse per vivere. Ma quel che la crudele capitale gli riserva sono solo sei luridi franchi al giorno – tre per le sigarette, qualcuno per il biglietto del tram, il resto per una matita, dei quaderni su cui scrivere e un posto letto in chissà quale pulciosa stamberga periferica da dividere con un compagno ancora più povero e sfortunato di lui. Quando durante il giorno uno dei due è a lavoro, l’altro ne approfitta per riposare, cedendogli il posto alternativamente la notte successiva.

 

 

L’autore di 1984 e La fattoria degli animali, il perspicace ideologo della post-modernità, racconterà tutto questo in uno dei suoi libretti più amabili e ormai quasi introvabili: Senza un soldo a Parigi e a Londra. Se avrete modo di scovarlo qua e là tra le bancarelle, mi raccomando, non lasciatevelo sfuggire. E’ con le sue parole ma soprattutto con il suo esempio che vorrei rispondere alle odierne cassandre sempre pronte a minimizzare le fatiche degli altri, ribadendo che quelli erano sacrifici d’altri tempi. Lo faccio con tre parole per me emblematiche: dedizione, coraggio, ossessione. Senza esse nulla avrebbe valore. Le difficoltà di questi e di tanti altri uomini che hanno lasciato il segno hanno permesso a noi di scrivere la nostra storia. Queste righe vogliono essere un omaggio al loro sangue impetuoso e alle loro speranze spesso infrante, perchè è solo grazie ad essi se Parigi non è più una normale città come tante, ma una dimensione dello spirito assoluta e scintillante. 

 

Luigi La Rosa