A Montmartre sulle tracce di Toulouse-Lautrec e Utrillo

 

La magia di Montmartre non si esaurisce certamente nei fasti della Belle Époque, né nelle scontate mitologie delle sue notti brave e lussuriose. Quello che scopriremo quest’oggi è un quartiere che poco o nulla ha da spartire coi successi mondani dei suoi sfolgoranti ritrovi à la mode, dei suoi cabarets, delle vetrine piene d’ogni genere d’invito alla seduzione. Piuttosto col languore assorto, con lo stupore, col peso dei giorni faticosamente intrecciati nell’ordito di esistenze che hanno reso celebre la collina. Esistenze che se porgiamo l’orecchio sembrano daccapo disposte a riguadagnare la parola, a ridiventare racconto, sopraffatte ma non cancellate dall’incedere tumultuoso e stritolante della storia.

 

Ancora una volta per l’avvio della nostra promenade abbiamo scelto una piazza, un luogo, un punto ben preciso: la fermata Blanche della linea 2 della metropolitana. Scendete, seguitemi. Non lasciatevi distrarre più di tanto dall’iperrealistico richiamo del Moulin Rouge, pietrificato nella sua rossa imponenza di gigante.

 

Procediamo lungo quello che a prima vista sembra solo un ampio viale alberato, ma che ha rappresentato, in verità, il nucleo vitale ed energetico di tutto un mondo artistico e intellettuale, il crocevia di aneddoti che hanno dell’inverosimile. Oltrepassiamo la perpendicolare che tagliandolo ci condurrebbe al cimitero di Montmartre, per giungere in fondo, dove la via diverge in due differenti direzioni.

Se rallentate un po’ il passo, guardando sulla vostra destra avrete la prima delle emozionanti sorprese della passeggiata. Attraverso le grate forate del cavalcavia che costeggia la carreggiata, se vi sporgete appena, avrete modo di godere della prospettiva aerea delle tombe che compongono, a mio parere, il più significativo e romantico cimitero cittadino, anche se non il più noto. Troverete croci e lapidi di ogni forma e colore, perché a Parigi pure la morte ha un suo colore specifico e non è quasi mai l’abituale nero straziante della cancellazione definitiva, ma la pacata dolcezza del grigio piccione, il viola tenero del glicine maturo e del cielo certi pomeriggi d’inverno, il verde livido o quello muschioso del bronzo smangiucchiato dagli anni, il celeste tenue delle lavande, sbiadite, invecchiate sotto la pioggia.

 

Queste lapidi che continuano a cantare l’eterna odissea degli uomini non sembrano affatto pietra o ferro scolpiti, ma testimonianze vive, cui porgere il cuore, sulle quali appuntare un fiore. Sarebbe bello andare a cercarne una in particolare: quella di una donna sfortunata e sola, con tre nomi e altrettante identità, ma un unico infelicissimo destino.

 

Questa fragile creatura riposa all’interno del cimitero, ma viene quasi spontaneo chiedersi se sia davvero morta, viste la vitalità del mito e la forza della presenza: Alphonsine Rose Plessis per la sua famiglia di umilissimi origini (una madre assente, un padre violento e alcolizzato, gente normanna dalla pelle dura e dal fiato avvelenato), Marguerite Gautier tra le pagine de “La dama delle camelie”, romanzo con cui Alexandre Dumas figlio le darà la fama ritraendola nella mestizia della più famosa e più triste cortigiana parigina, e infine Violetta, nelle note della “Traviata” con cui Giuseppe Verdi ne condenserà definitivamente il candore e la disperata dolcezza.

Ci soffermiamo solo un attimo davanti al suo ricordo, poi lasciamo che svanisca, come tutto il resto, che si faccia bruma mescolandosi al grigio del mattino. E’ più su che siamo diretti, dove la strada viene improvvisamente rivestita dal verde scuro e rigoglioso degli alberi, e le facciate dalla penombra che le foglie proiettano sinistramente sui mattoni crepati. Siamo a rue de Caulaincourt e la percorriamo per un buon tratto fino al numero 21.

 

Quando raggiungiamo l’edificio, sulla sinistra rispetto al nostro senso di marcia, sembra quasi incredibile credere a quello che abbiamo davanti agli occhi. Eppure è realtà, una realtà superba, piena di fascino, in grado di mescolare le fila luminose dell’evocazione alla trama pura dei fatti davvero accaduti, una realtà che è possibile sfiorare con mano, assecondandone sotto i polpastrelli la matericità, sentendo il cuore battere. La porticciola d’ingresso è scura, alta, con qualcosa d’inglese, e affiancata da due finestre dall’aria tipicamente ottocentesca. Più su, al terzo piano, esattamente ad angolo sull’incrocio, osserviamo la vetrata enorme di quello che fu un atelier d’artista destinato ad entrare nella leggenda.

E’ qui che il pittore Henri de Toulouse-Lautrec viene a vivere per qualche tempo insieme all’anziano padre, installato al piano inferiore. Lassù, dalla spessa apertura che lascia entrare la luce e che oggi notiamo incorniciare tende di stoffa d’un avorio leggero, il geniale nano dipinge alcuni dei suoi più importanti lavori: qui che fisserà gli sguardi sfuggenti di Aristide Bruant, di May Milton, ma soprattutto di Louise Weber, più nota come Goulue, diva indiscussa del Moulin Rouge e figura emblematica dell’anima, dello spirito gioioso e bacchico della Belle Époque.

 

Toulouse-Lautrec è l’ultimo erede di una famiglia importante e decaduta, l’ultimo anello di un casato che chiude nel genio la sua spirale di morte e di dolore. La malattia congenita, la caduta che indebolirà le sue articolazioni, la deformità che rafforzerà per contrasto nel pittore la consapevolezza interiore del talento e l’orgoglio divorante della propria diversità sono solo alcuni dei tratti più caratteristici e spiccati di quella che diverrà una parabola umana e creativa d’ineccepibile splendore. Lautrec, che vive nei bordelli, che interroga la carne, che studia la nudità per mutarla in arte, in colore, nel fondo viola o blu elettrico dei suoi enormi manifesti, è il maestro di capolavori dotati di uno sperimentalismo che, oltre ad arricchire i forzieri della storia dell’arte mondiale, spalancherà le porte all’avvento della modernità e all’uso della rappresentazione artistica come veicolo pubblicitario. Non mi riesce difficile immaginarlo nel vento freddo di dicembre, mentre risale lo stesso sentiero un tempo erboso su cui oggi scivola l’asfalto lucido della capitale, né figurarmi i suoi vagabondaggi febbrili, scontrosi, sempre al limite dell’abisso e dello scherno, con compagni di bevute come Degas, Gauguin o Van Gogh.

 

Dev’essere stato una creatura strana, felina, lunare, capace di fondere come pochi l’istintività carnale e narrante delle sue tele all’astrattezza di uno sguardo duro e ferito da bambino: le pupille sottili che brillano sotto le lenti cerchiate, lo sguardo penetrante, intellettuale, il sorriso stentato. Eccolo il più chiacchierato pittore di Montmartre, lo scandaloso, l’irredento, maturato tra gli afrori dei belletti femminili e sempre pronto a nascondere il lampo di una nuova intuizione tra le curve morbide di sottane e giarrettiere. Percorrendo fino in fondo il sentiero, giungiamo finalmente nel cuore del quartiere. E’ questo Montmartre: l’apice di una continua salita, il climax di una scalata, la vetta indiscussa e brillante di Parigi. E se dipingere rappresenta per Lautrec una voracità sensoriale più che naturale e la vittoria compiuta della produttività sulla sofferenza umana, in Utrillo, altro simbolo della Butte, è essenzialmente una forma di resistenza, di lotta inestinguibile, una maniera miracolosa per sopravvivere alla follia e tenerne a bada gli assalti spaventosi.

Giungendo dal basso, proprio a metà di rue des Saules, scorgiamo una casa piuttosto bassa, che sembra uscire direttamente da una fiaba. E’ la Maison Rose – rosa, come il delicato colore che riveste le sue pareti, e come il locale che oggi porta il suo antico nome. Rosa come il crepuscolo di certi giorni d’estate languidi e apparentemente infiniti, e come la macchia oleosa che il pennello dell’artista ha saputo sfumare e diluire, sfuggendo in tal modo all’orrendo destino che sembra tingere di sangue la sua biografia. Dietro Utrillo c’è una figura femminile altrettanto geniale e tormentata: Suzanne Valadon, residente al 12 rue Cortot – appena più su, a pochi metri dalla casa di Erik Satie, il compositore che diverrà uno dei suoi abituali amanti – pittrice dotata a sua volta, acrobata circense, ballerina, modella. Al Moulin de la Galette (non ci spostiamo che di poche centinaia di metri) Suzanne incontra Renoir, che la spoglia, la ritrae, ne fa ufficialmente la sua donna.

 

Ma Suzanne è troppo libera per lasciarsi imbrigliare, troppo indipendente per legarsi per sempre a un uomo, fosse pure un innovatore, un pirata o un caposcuola. Vuole vivere di sé, decidere del proprio destino, essere donna e amante senza sottomettere a niente e nessuno il suo spirito estroso e fiero. E’ per questo che è difficile strappare l’ambigua identità legata al concepimento del figlio dalla matassa di tenebre e di supposizioni che l’avvolgono. Tuttavia, nonostante non si sappia con certezza chi sia il vero padre di Utrillo, e sebbene la solitudine dell’artista non venga minimamente smorzata dalla presenza di André Utter – il più importante e conflittuale compagno della madre, della metà dei suoi anni, esile come un satiro e bello come un dio greco – Suzanne fa al figlio il più grande dei doni, mettendogli tra le mani un pennello, e delle cartoline postali che risuscitano il fascino della vecchia Paris.

E’ così che dietro il suggerimento arguto dei medici, e di questa madre a suo modo unica e diversa, Utrillo – colpito dalla devastante schizofrenia che lo tormenterà fino alla fine dei suoi giorni – riuscirà comunque a reagire alle sue crisi e a non lasciarsi mai piegare dalla morsa della sventura, tramutando in poesia laconica e un poco allucinata i panorami accorati della più bella città del mondo.

Notre Dame, la Maison Bernot, i vicoli stretti e profondi che s’avvitano come rughe all’adiacente Lapin Agile: tutto diviene nell’arte visionaria di questo delirante sublime occasione per raccontare, per testimoniare, per commuovere. Scendiamo soltanto di poco, assecondando la pendenza del sentiero per ritrovarne le spoglie nel cimitero di Saint-Vincent (in assoluto il più piccolo di Parigi), dove sotto un muro coperto d’edera e dei fiorellini di campo a forma di stella un angelo col viso d’adolescente custodisce la memoria del pittore e della sua compagna, la devota Lucie Valore.

 

Toulouse-Lautrec e Utrillo: due simboli del malessere che si fa portavoce della grandezza, due veri e propri monumenti che la città non dimentica, ma le cui testimonianze sembrano di tanto in tanto confondersi oltre le piste modaiole del turismo di massa che sempre più aggressivamente colpisce la vita di Montmartre. E’ qui che probabilmente bisogna tornare a cercarli, nel silenzio che circonda le cose, nei vuoti di fine giornata, negli abbagli precoci, prima che smorzi la luce del cielo e che divampi quella artificiale e metafisica della più illuminata metropoli del nostro tempo. E’ qui che la linfa della loro presenza torna a siglare, come per magia, il mistero intraducibile della città, della sua musica, della sua malinconia.

 

Luigi La Rosa

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