Parigi, una dimora senza tempo

 

Una passeggiata in una Parigi interessante e diversa è di sicuro quella che passa attraverso i luoghi, le case, ma soprattutto le storie dei grandi scrittori che la elessero come patria e fondale delle loro opere.

 

La prima tappa stamani ci porta direttamente a Passy – una delle ultime fermate della linea 6 (direzione Charles de Gaulle), e più precisamente fino al 47 rue Raynouard, dove sorge la suggestiva casa-museo di Balzac: l’ultima che l’autore abitò per sette anni, giungendovi nell’ottobre del 1840 insieme alla sua fedele governante Louise Breugniot. La residenza di Passy, alla quale si accede attraverso un cancello di ferro e poi una scala che immette in quello che un tempo dovette essere l’ingresso secondario dell’abitazione è un luogo legato a una vicenda di fuga e a una tragedia incombente. Balzac, che aveva appena ultimato una stupenda dimora sulle colline di Sevrès, acquistata coi diritti proficui ricavati della vendita di “Cesar Birotteau”, scritto impetuosamente nell’arco di due soli mesi, è letteralmente schiacciato dall’arrivo del telegramma che gli comunica il crollo dell’edificio sotto la frana dei muri di recinzione.

 

 

Nella lettera che scrive a madame Eve Hanska, sua musa e amante ideale, che riuscirà a sposare solo dopo diciassette serrati anni di corteggiamento nell’aprile del 1850 (l’autore morirà nell’agosto di quello stesso anno) dichiara: “Sono rovinato, letteralmente rovinato!”. Ma è un uomo troppo forte, troppo avvezzo alle cadute per abbattersi più di tanto. L’appartamento di Passy si muta pertanto in fortezza, in rifugio, in luogo di assoluta clausura, dove scrivere, giorno e notte, in preda al furore creativo fiammeggiante che lo porterà a concludere nell’arco di pochi anni la maggior parte dei volumi che compongono l’intramontabile Comédie.

 

Il regime di lavoro è quello di un forzato: a letto alle dieci di sera, appena qualche ora di sonno, e subito allo scrittoio ad affrontare la battaglia con la pagina ininterrottamente fino alle otto del mattino seguente. Penetrando attraverso lo studiolo interamente rivestito di legno e con i vetri colorati da chiesa, le impressioni sono davvero forti: un crocifisso di legno campeggia a un lato della stanza, mentre all’altro il busto realizzato da David D’Angers ci restituisce i lineamenti duri e volitivi dell’uomo. In mezzo, il basso tavolo accostato a una massiccia sedia di legno porta ancora i graffi, le usure di un travaglio di penna che dovette avere i ritmi di un’arte di spada. E’ impetuoso, istintivo, carnale il modo in cui Honoré de Balzac si getta sul testo quasi tentasse di tirarlo fuori da una specie di disperazione, di vuoto abissale. Le parole prendono in prestito volti e attitudini per narrarci l’eterna farsa di una città – Parigi appunto – che nell’immaginario dell’artista diviene l’emblema stesso del mondo intero, con i suoi vizi e le sue virtù.

 

 

Come faceva Balzac ad affrontare ritmi di dodici, quindici, a volte persino diciotto ore di scrittura ininterrotta? La risposta è nella camera in fondo al breve corridoio che congiunge lo studio alla cucina, nella deliziosa caffettiera di porcellana bianca – da cui le dosi massicce di caffè che avrebbero favorito l’insorgere del colpo apoplettico definitivo, quello che lo ucciderà – il pezzo unico, rigorosamente conservato sotto vetro, con le iniziali dello scrittore (H.B.) impresse in densi caratteri bordeaux.

 

 

La letteratura era il solo rifugio dai mali della vita, pure quando la miseria bussava pesantemente alle porte di questo nascondiglio tra la pace dei mulini – Passy, all’epoca, era ancora un borgo di verdi silenzi e di vigne attraversate da ruscelli d’acqua. E poco distante da qui, e visibile dalle finestre della cucina dell’autore, la Maison de Santé dell’alienista Émile Blanche, dove deliranti e privi di qualunque speranza di guarigione chiuderanno i loro giorni altri due giganti delle lettere francesi: Guy de Maupassant e Gerard de Nerval. Il primo perirà dopo numerose notti di agonia, l’altro finirà impiccato a un cancello nei presso dello Châtelet, il gelido 26 gennaio del 1855.

 

Da questo luogo ancestrale e pacifico Balzac scriverà alla sua donna lontana lettere accorate, piene di desiderio e del bisogno d’incontrarla. Le descrive con la precisione di un miniaturista il raggio di sole che al mattino scivola attraverso i vetri sfiorando gli inchiostri ancora freschi e pieni di cancellature e imporporando quella piccola oasi di pace e di silenzio. Poi, quando mariti gelosi verranno a reclamare l’oltraggio subìto, o gli ufficiali giudiziari busseranno con forza all’ingresso principale della casa per reclamare il riscatto dei debiti pazzeschi accumulati dello scrittore, Balzac indosserà il foulard sul viso e anonimamente balzerà via dall’ingresso di sicurezza, pronto a saltare sulla prima carrozza per Parigi, la città che pochi hanno amato e attraversato come lui, con l’itinerante periplo dei tuguri nei quali ha abitato, con la frequentazione dei salotti nobiliari che si sono fregiati del suo nome come d’un fiore all’occhiello, saltando da un letto all’altro di amanti che troppo presto si sono scordate di lui, fondando addirittura una tipografia al 17 della rue Visconti e dichiarandone subito dopo fallimento. E’ un uomo che ha conosciuto l’alterna fortuna dei pionieri e dei rivoluzionari veri, perché una rivoluzione è quella che sta consegnando al mondo attraverso il miracolo dei suoi romanzi.

 

Lasciata Passy reimmettetevi sulla metro 5 fino alla fermata Bastille, per tornare in centro, ed esattamente a Place des Vosges – una delle più belle e caratteristiche della capitale, nel dinamico e colorato quartiere del Marais, quartiere gay e antico ghetto ebraico – dov’è d’obbligo un salto alla casa-museo di Victor Hugo – luogo pure questo di grande fascino non soltanto per la presenza egocentrica del patriarca delle lettere francesi, ma per le vicende famigliari e femminili che s’intrecciano alla vita del genio grandioso, ma non privo di contraddizioni.

 

 

Le sale imponenti e ricoperte di broccato rosso non sono più quelle nude e toccanti della miseria tangibile di Balzac – qui si respira la solennità della dimora di un uomo fastoso, riconosciuto, un vero e proprio principe del suo tempo, che ogni sabato sera riunisce sui balconi che affacciano sulle arcate dei giardini reali il fulcro di quella che sarebbe diventata la scandalosa intellighenzia della stagione romantica: da George Sand, a Chopin, a Liszt, Baudelaire, Théophile Guatier (residente pure lui a pochi metri di distanza da casa Hugo) e Rossini, stimato e riverito dalla stampa francese quasi come il massimo compositore d’ogni tempo. Ma non sono i ritratti tronfi dello scrittore a catturarmi (né quello di Nadar, né quello eseguito dallo scultore David D’Angers, che campeggia nella camera da letto come una specie di reliquia) ma le esistenze delle due sole figlie femmine dell’autore, ingiustamente cancellate dalla vita, e una – Adele H. – persino dall’altare dei ricordi e degli affetti.

 

Leopoldine Hugo, prima femmina dopo tre fratelli maggiori, giunge ad allietare la vita dei coniugi con la sua bellezza e i suoi mille talenti. Ci fissa nel ritratto che le farà Auguste de Châtillon, nel giorno della sua prima comunione: l’abito rosso a pois è quello divenuto celebre quasi quanto il nome del padre e le sue opere. Il 4 settembre del 1843 la ragazza annegherà nei pressi di Villequier, insieme a Charles Vacquerie (l’uomo che aveva sposato da pochi mesi, lei diciannove anni, lui ventisei). Una tempesta improvvisa ha capovolto il barcone che li trasportava insieme ad alcuni familiari del ragazzo: per lo scrittore sarà l’inizio di un lutto doloroso e inguaribile, che per quattordici anni gli impedirà di scrivere qualunque cosa, ad eccezione del breve poema che dedica al culto dell’estinta e nel quale la prega di attenderlo, lì dove l’erba verde guarda l’acqua assassina che l’ha portata crudelmente via all’amore dei genitori.

 

 

L’altra figlia invece, l’ultima, la povera Adele Hugo, è vittima sistematica del suo delirio e della cancellazione efficace che ne operarono la famiglia e la società dell’epoca. L’esistenza della tormentata fanciulla, resa poesia pura nel film che ispirò Truffaut, si concluderà in un manicomio alle porte di Parigi dopo aver amato, venerato, finto addirittura di sposare il sottotenente Alfred Pinson, che inseguirà affannosamente per tutta la vita, persino in Canada, mettendo in scena un inganno che la farà precipitare senza scampo nelle spire del disamore e del più crudele autoannientamento. Mi stupisce quest’ingiustizia evidente: tutto un angolo della casa offerto ai ricordi di Leopoldine (il pesante dipinto incorniciato al centro del salone principale, il profilo che il padre stesso aveva realizzato mettendo a fuoco le sue notevoli qualità di disegnatore, l’aura che avvolge questa figura pallida e spettrale), mentre niente, neppure una foto dell’altra, la povera Adele, la reietta impronunciabile, stroncata dalla malattia e dall’infelicità.

 

Probabilmente, pure un uomo democratico e delle vedute del grande Hugo non è riuscito comunque a vincere il timore del pregiudizio e della condanna collettiva. Ed ecco che Parigi, patria universale dei diritti umani e delle più salvifiche rivoluzioni, camuffa tra le sue pieghe cicatrici di dolore vivo, che commuove, che tocca, ma soprattutto che interroga.

 

Luigi La Rosa

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